La testimonianza davanti al Papa di Aziz, un giovane cristiano iracheno: «Non sono qui per raccontarvi le cose brutte successe, ma per dirvi che sono stato salvato da Gesù Cristo. Sono convinto che come giovani possiamo fare la differenza che vogliamo vedere nel mondo»
C’è una data che Aziz non scorderà mai: il 6 agosto 2014. È il giorno in cui lui e la sua famiglia hanno dovuto lasciare la loro città in Iraq invasa dall’Isis. Aziz aveva solo diciott’anni e ricorda con chiarezza i momenti della fuga, quando sono partiti soltanto con i vestiti che aveva addosso, non potendo portare niente con sé. Il giovane ha raccontato la sua storia davanti a Papa Francesco e ai padri sinodali sabato nell’aula Paolo VI durante «Noi per. Unici, solidali, creativi», l’evento speciale con i giovani in occasione del Sinodo in corso. Diverse le testimonianze che si sono alternate sul palco, tra musica e filmati.
«Come tutti i diciottenni vivevo una vita normale. avevo una casa, una famiglia, andavo a scuola, facevo sport. Poi un giorno tutto e crollato – ha raccontato Aziz -. Un gruppo dell’Isis è giunto nella mia città e così il 6 agosto 2014 abbiamo dovuto lasciare la nostra casa, perché siamo stati messi davanti alla scelta se diventare musulmani e pagare una somma o essere decapitati». Tra il silenzio e l’emozione della sala gremita, il giovane iracheno è ritornato a quei momenti di dolore: «Non so da dove cominciare a descrivervi la folla dei profughi e l’angoscia della gente che aveva perso le sue sicurezze, le lacrime, gli sguardi dei soldati, la gente accampata per dormire in strada». Lui e la sua famiglia affrontarono un viaggio fino a Erbil che, invece della solita mezz’ora, durò dodici ore; poi si trasferirono in un’altra città. «Ho capito che se fossi rimasto radicato nella mia sofferenza, non sarebbe cambiato niente e non sarei riuscito andare avanti – ha detto Aziz -. Ho pensato a Gesù in croce, quando attraversa quel momento difficile, e ho ricordato quel grido al Padre in cui chiedeva “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Mi sentivo impotente, come lui, abbandonato come lui, solo come lui. Allora mi sono affidato completamente a lui e ho deciso di vivere il momento presente per lui».
Il giovane iracheno ha parlato anche di alcuni compagni che condividevano la sua “sventura”: erano membri della comunità yazida, a cui i terroristi avevano ucciso gli uomini, violentato le donne. Chi era riuscito a scappare avevan bisogno di essere consolato e per questo c’era bisogno che ognuno mettesse da parte il suo dolore. Dopo due mesi di esilio, i genitori di Aziz hanno scelto di trasferirsi in Francia: «Siamo arrivati il 26 ottobre 2014. Ci sentivamo persone straniere, ma ci hanno accolto e aiutato. Abbiamo sentito che Dio stesso stava lavorando attraverso quelle persone gentili».
Oggi Aziz parla inglese, frequenta l’università e dice di essere riuscito a perdonare i membri dell’Isis. «Non sono qui per raccontarvi le cose brutte successe, ma per dirvi che sono stato salvato da Gesù Cristo – ha concluso -. Sono convinto che come giovani possiamo fare la differenza che vogliamo vedere nel mondo».
Oltre cento i ragazzi sul palco della festa con Papa Francesco e i padri sinodali, ognuno con una esperienza diversa da condividere. Storie di riscatto dalla criminalità o dalla droga, di vita consacrata, di malattia e anche altre storie di profughi viste da una prospettiva differente. «Vivo nel campo profughi di Tel Abbas in Libano – ha detto Giulia, ventitré anni, del Corpo Civile di Pace all’estero -. Come volontari viviamo nella condivisione diretta della vita di coloro che sono negli angoli più bui del mondo, dove la guerra e l’odio distruggono tutto – ha spiegato la giovane -. In Libano viviamo in una piccola tenda di nylon e cartone, insieme ai profughi siriani, che scappano dalla morte. Loro credono ancora che vivranno e noi crediamo con loro».
Giulia ha raccontato la difficoltà di coloro che combattono ogni giorno per la speranza e il supporto che i Corpi Civili di Pace possono dare loro: «Noi volontari diventiamo non solo mediatori, ma amici, figli, parte delle famiglie, diventiamo parte della comunità». L’aiuto è rivolto non solo ai profughi, ma anche ai libanesi stessi. «Per esempio i cristiani libanesi di Tel Abbas vedono in ogni siriano un potenziale terrorista. Noi condividiamo la vita con loro e anche la Messa e questo fa sì che la violenza si abbassi e si crei uno spazio di dialogo molto grande – ha affermato Giulia – . Io credo che la mia fede appartenga a tutti: la mia fede è amore, amore di confronto e di conforto».