Ad appena una settimana dal vertice con Trump in Arabia Saudita alcune dichiarazioni (poi smentite) dell’emiro del Qatar su un possibile dialogo con Teheran stanno creando scompiglio nei rapporti tra i Paesi del Golfo. E della grande alleanza rischiano di restare solo le armi vendute da Washington
È durata una manciata di ore. Giusto il tempo della foto di gruppo con Donald Trump a Riad, che avrebbe dovuto rinsaldare l’alleanza «contro l’estremismo» (e soprattutto contro l’Iran). Il presidente degli Stati Uniti non ha fatto nemmeno in tempo a terminare il suo viaggio, che nel Golfo Persico era già ricominciato lo scontro. E non solo quello con l’Iran, ma anche quello interno al Consiglio di Cooperazione del Golfo, l’organismo che vede insieme l’Arabia Saudita e gli altri cinque Paesi che si affacciano sul Golfo Persico: Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar.
È stato l’emiro del Qatatr – Paese che da tempo aspira a giocare una partita sua in Medio Oriente – a rompere le uova nel paniere con alcune dichiarazioni rilanciate dall’agenzia di stampa ufficiale apparse come una critica alla battaglia a tutto campo contro Teheran, portata avanti dagli al Saud. «Non è saggio nutrire sentimenti di ostilità verso l’Iran, che è una grande potenza islamica», avrebbe dichiarato l’emiro Al Thani in una cerimonia ufficiale proprio all’indomani del vertice di Riad che aveva avuto nella dimostrazione di forza contro Teheran uno dei suoi obiettivi centrali.
La cosa è ovviamente andata di traverso all’Arabia Saudita e non solo. Anche gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein hanno risposto accusando Doha di tradimento e hanno risposto con una ritorsione mediatica: hanno oscurato il segnale di al Jazeera e altri siti internet di informazione ritenuti vicini al Qatar. A poco sono valse poi le smentite dell’emiro, che ha sostenuto di non aver mai pronunciato quella frase e di essere stato vittima di un hackeraggio. I media sauditi non ci credono e da giorni continuano a sparare bordate contro Doha, comprese notizie su un vertice segretissimo che il ministro degli esteri del Qatar avrebbe tenuto a Baghdad con gli iraniani, proprio prima di recarsi a Riad all’incontro con Trump.
È di oggi infine la notizia – abbastanza surreale – di una disputa squisitamente religiosa: 200 discendenti di Ibn Abd al-Wahhab, il fondatore del wahhabismo (la rigidissima scuola di interpretazione dell’islam dominante in Arabia Saudita) hanno preso pubblicamente posizione per disconoscere ogni legame tra la famiglia dell’emiro Al Thani e il loro capostipite. E – in forza di questo – hanno chiesto che il Qatar cambi nome alla moschea aperta e intitolata a Ibn Abd al-Wahhab nel 2011 (anno in cui evidentemente gli emiri di Doha potevano ancora essere considerati persone di famiglia).
Sullo sfondo c’è anche la questione – ben più seria – del rapporto con il movimento dei Fratelli Musulmani, di cui il Qatar è il principale sostenitore. Già nel 2013 – dopo la destituzione di Mohammed Morsi al Cairo da parte del generale al Sisi – le strade dell’Arabia Saudita e del Qatar si erano pesantemente divaricate, con i primi pronti a aostenere il nuovo assetto egiziano e i secondi rimasti fedeli al movimento islamista. E va detto anche che le ragioni per cui Doha è meno intransigente nei confronti di Teheran sono ovvie: per motivazioni geografiche il piccolo emirato del Qatar ha tutto da perdere in un eventuale confronto con l’Iran. E non è un caso che proprio Doha più volte abbia mediato scambi di prigionieri nella guerra in Siria, dimostrando di mantenere canali aperti.
Va anche aggiunto che quella con il Qatar non è l’unica divisione all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Altri malumori erano già emersi tra l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti rispetto alla conduzione della disastrosa guerra nello Yemen. In quel caso sarebbe Abu Dhabi a essere molto più inclina rispetto a Riad ad arrivare a una soluzione negoziata del conflitto.
Tutto questo conferma quanto la polveriera del Medio Oriente resti complessa. E quanto sia folle la decisione di Washington di stipulare in questo momento con Riad il più ingente contratto di forniture di armamenti della sua storia. La cosiddetta «Nato araba» – che nei discorsi di Washington dovrebbe portare stabilità alla regione – è frutto solo di una fantasia interessata. Che alimenta giochi pericolosi in un’area cruciale del mondo.