Le ambizioni marittime della Turchia hanno provocato gravi incidenti con la Grecia e la Francia. Ma c’è anche la partita libica, per non parlare degli interessi incrociati di Russia, Iran e Cina. E l’Italia resta a guardare
Scontri a suon di trattati sulla sovranità marittima, incidenti diplomatici e conflitti sfiorati tra Paesi affacciati sullo stesso mare: da tempo le acque del Mediterraneo non erano così agitate.
L’attore più aggressivo, in questa guerra per lo sfruttamento delle risorse custodite dai fondali, è la Turchia di Erdoğan, il cui faro ispiratore è la dottrina della cosiddetta “Patria blu” (“Mavi Vatan” in turco). La teoria elaborata anni fa dall’ammiraglio Cem Gurdeniz (tra l’altro un laico kemalista che con l’Akp di Erdogan ha in comune solo il deciso nazionalismo) aspira a un “ritorno della Turchia al mare”, un approccio allargato che va dallo sport all’economia, ma il cui caposaldo è il perseguimento degli interessi turchi dal Mar Nero attraverso il mare di Marmara e i Dardanelli fino – appunto – al Mediterraneo orientale.
Si tratta di uno dei volti del neo-ottomanesimo del presidente turco, che però sta facendo montare lo scontro con gli altri Paesi che vantano diritti nell’area: in prima fila la Grecia e poi Egitto, Cipro, Israele, supportati dall’Unione Europea – Francia in testa.
I contrasti sulla delimitazione delle acque territoriali e delle zone economiche esclusive (le zee) sono di vecchia data tra Atene e Ankara, secondo cui i confini attuali favoriscono la Grecia. La Turchia, per esempio, rivendica la giurisdizione marittima nel vicino Dodecaneso, tra Rodi e Creta.
I toni si sono alzati in seguito alla scoperta, nel 2010, di grossi giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale, per il cui sfruttamento è nata una cooperazione tra Grecia, Cipro e Israele, che esclude la Turchia (e i turco-ciprioti). Ne sono seguiti sconfinamenti e provocazioni incrociate, fino all’incidente, quest’estate, tra una nave turca e una francese, giunte a un passo dallo scontro, e poi ancora alla recente collisione tra una fregata greca e una nave turca a est dell’isola di Rodi, in seguito alla quale il presidente francese Macron ha deciso di mandare rinforzi militari ad Atene.
Questi episodi inediti – parliamo di gesti apertamente ostili tra alleati Nato – dimostrano quanto il mutamento degli equilibri nel Mare di Mezzo, con quelli vecchi che vacillano e quelli nuovi ancora tutti da disegnare, stia spingendo diversi Paesi rivieraschi a cercare di ritagliarsi un proprio spazio da protagonisti e proiettare la propria influenza su acque contese.
Ankara, è chiaro, in questa partita si gioca la possibilità per la sua flotta di continuare a sostenere un impegno militare in Nord Africa, fondamentale per la sua politica nel Mediterraneo. A cominciare dalla presenza in Libia a cui Erdoğan non intende certo rinunciare. Poco peserà in questo senso la richiesta di cessate il fuoco siglata a fine agosto dal premier del Governo di accordo nazionale di Tripoli Al Sarraj e dal presidente del Parlamento di Tobruk Aguila Saleh, che prevede il ritiro delle forze straniere, tra cui la Russia e appunto la Turchia, che nei mesi scorsi oltre a dispiegare in Libia le proprie forze militari e di intelligence vi ha trasferito migliaia di combattenti siriani.
A garanzia dei propri interessi nelle acque del Mediterraneo orientale Ankara ha l’accordo di demarcazione marittima firmato a novembre con Tripoli (senza l’approvazione del Parlamento a Tobruk), sconfessato però ad agosto da quello raggiunto tra Grecia ed Egitto, nel quale il Cairo rinuncia a migliaia di chilometri quadrati di superficie marittima pur di contenere le ambizioni turche nell’area.
Tutti indizi chiari del carattere estremamente strategico della regione, in cui arrivano i tentacoli degli interessi anche dell’Iran, in cerca, attraverso la Siria, dello sbocco sul Mediterraneo che garantirebbe a Teheran un corridoio diretto dai nostri mari fino all’Oceano Indiano, e della Cina, proiettata sulla rotta che dal Mare Cinese, attraverso l’Oceano, il Mar Rosso e Suez, arriva al Canale di Sicilia e a Gibilterra.
Si capisce bene, quindi, perché gli Stati Uniti, protagonisti in queste acque almeno da ottant’anni, non possono certo andarsene oggi. E restano quindi presenti, in modo diretto e soprattutto mettendo il proprio peso dietro agli attori locali che ritengono di volta in volta più strategici, in funzione appunto anti-iraniana, anti-cinese e anti-russa. Non deve sorprendere quindi in questo quadro la scelta di continuare a chiudere un occhio sull’espansionismo libico di Ankara, considerata nonostante tutto un partner più utile.
E mentre la Turchia suggella la cooperazione trilaterale in campo militare con la Libia e il Qatar, incentrata sul porto strategico di Misurata, l’Italia, che proprio in quel porto aveva stabilito la sua testa di ponte creando un ospedale da campo gestito dai nostri paracadutisti, assiste all’ennesimo atto della propria emarginazione dal teatro libico, in cui l’unica presenza nostrana è oggi quella dell’Eni. La questione di come ricostituire una zona di sicurezza e di influenza italiana a sud delle nostre coste appare lontana dall’essere anche solo chiaramente teorizzata. Ma resta di un’importanza cruciale. E il tempo stringe.