Non era in grado di camminare quando l’Isis nel giugno 2014 intimò a tutti i cristiani di andarsene. Così a Telkeif, villaggio ora liberato, una famiglia musulmana l’ha tenuta nascosta per due anni e mezzo, consapevole dei rischi che correva. Una storia che ricorda quelle dei Giusti tra le nazioni durante la Shoah
Con la liberazione ormai quasi completa della riva orientale del fiume Tigri da parte dell’esercito iracheno, da Mosul – la città simbolo delle violenze dello Stato islamico e del suo accanimento contro i cristiani – cominciano ad arrivare anche le storie. Raccontano tutti gli orrori commessi dagli uomini di al Baghdadi, ma non solo. Rivelano, infatti, che anche questa volta ci sono stati uomini e donne coraggiose che, nel mezzo della barbarie, hanno scelto di fare quanto era loro possibile per opporsi.
Attraverso il preziosissimo blog italiano Baghdadhope abbiamo scoperto una storia straordinaria raccontata in questi giorni dal quotidiano panarabo Al Araby al Jadeed, ma come spesso accade in questi casi rimasta ai margini delle notizie sulla campagna militare in corso in Iraq contro lo Stato Islamico. A Telkeif – un villaggio a circa 15 km a nord est di Mosul dove fino a due anni e mezzo fa cristiani e musulmani vivevano insieme – le forze di sicurezza irachene hanno trovato Georgette Hanna (nella foto), una donna cristiana di 60 anni che per tutto questo tempo è stata nascosta in casa propria da una famiglia musulmana.
Anche a Telkeif, infatti, nel giugno 2014 erano arrivati gli uomini con le bandiere nere, intimando a tutti i cristiani di andarsene subito se non volevano essere uccisi. Così avevano fatto tutti i parenti di Georgette. Ma lei non poteva: non era in grado di camminare fino a Erbil. Così in suo soccorso è arrivata una famiglia di amici musulmani, che le ha aperto la propria casa e l’ha tenuta nascosta per tutto questo tempo, pur consapevole del rischio altissimo che correva.
A questo proposito vale la pena di ricordare un’altra storia che nell’estate 2014 sempre noi di Mondo e Missione avevamo contribuito a far conoscere in Italia: quella del professor Mahmoud al ‘Asali, un professore del dipartimento di pedagogia dell’Università di Mosul che aveva preso posizione pubblicamente contro la pulizia etnica nei confronti dei cristiani. Un gesto che questo musulmano coraggioso aveva pagato con la vita, venendo messo a morte pubblicamente dai miliziani dello Stato Islamico.
Basta questo termine di paragone per capire appieno il coraggio dimostrato dalla famiglia che a Telkeif ha nascosto in casa Georgette Hanna. La paura di essere scoperti era talmente grande – racconta Al Jaraby al Jadeed – che anche davanti alle forze dell’esercito iracheno giunte a liberare la città, la donna ha tenuto il velo a coprire il suo capo e ha a lungo nascosto la propria vera identità, temendo che si trattasse sempre di milizie del sedicente califfato. Solo dopo essere stata rassicurata della fine di quell’incubo Georgette si è tolta il velo e ha accettato l’invito ad uscire di casa e a gustarsi la libertà ritrovata.
Colpisce che questa storia emerga proprio in questi giorni in cui il mondo fa memoria della Shoah, lo sterminio degli ebrei da parte del nazismo. Anche di fronte a quel dramma ci fu, infatti, chi ebbe il coraggio di opporsi assumendosi il rischio di nascondere nelle proprie case chi era in pericolo. Come è noto lo Yad Vashem li definisce i Giusti tra le nazioni, sono oltre 26.000 quelli oggi ufficialmente riconosciuti. E come ricordavo già qualche anno fa con la mostra Giusti dell’islam, tra loro ci sono anche alcuni musulmani: erano una settantina quando realizzammo con il Pime questo percorso nel 2008, oggi sono diventati circa ottanta, perché anche quelle storie – rimaste a lungo nascoste – continuano a riaffiorare. E sono tutte storie praticamente sovrapponibili a quella di Telkeif: la porta che si apre, il velo islamico per camuffare, il terrore dei controlli dentro casa…
La mostra Giusti dell’islam comincia con un pannello in cui si ricorda che la celebre frase del Talmud «Chi salva una vita salva il mondo intero» compare pressoché identica nella seconda Sura del Corano. Ed è un motivo di ispirazione anche per tanti musulmani.
Oggi abbiamo la conferma che è successo anche nell’inferno di Mosul: c’è stata una famiglia che ha messo a repentaglio la propria vita per salvare quella di una donna cristiana. Mentre altri musulmani, in quella stessa Mosul, dicevano di uccidere i cristiani in nome dell’islam. Hanno salvato una vita. E – contro la follia di chi anche oggi continua a seminare il veleno delle divisioni settarie in Medio Oriente – ci danno la speranza che, insieme, si possa salvare anche il mondo intero.