Nei giorni scorsi 168 accademici italiani hanno lanciato un boicottaggio contro il maggiore Politecnico israeliano, definito complice del «regime di occupazione, colonialismo e apartheid d’Israele». Silvia Gambino, una ragazza italiana che ha studiato ad Haifa, risponde: «In quella stessa università ho conosciuto gli Ingegneri senza frontiere che lavorano per i beduini del Negev»
Qualche giorno fa Il Fatto Quotidiano ha pubblicato la notizia dell’adesione di 168 accademici italiani alla Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale d’Israele. Nel dettaglio si dicono «profondamente turbati» dalla collaborazione di alcuni atenei italiani – il Politecnico di Milano, il Politecnico di Torino, l’Università di Cagliari (medicina), l’Università di Firenze (medicina), l’Università di Perugia, l’Università di Roma “Tor Vergata” e “Roma3” – con il Technion, il Politecnico di Haifa, definito complice del «regime di occupazione, colonialismo e apartheid d’Israele» per la sua collaborazione con le strutture militari israeliane. Proprio da Haifa è da poco rientrata in Italia un’amica, Silvia Gambino, che questa realtà israeliana la conosce molto bene per il fatto di aver frequentato proprio là un master su pace e riconciliazione, affrontando quindi in prima persona i problemi legati al conflitto. Ieri ha pubblicato su Facebook una riflessione sui limiti di un’iniziativa come questo tipo di boicottaggio che colpisce indiscriminatamente un’istituzione culturale. Riteniamo interessante proporla qui sotto ai nostri lettori.
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Per amore di Haifa non tacerò.
Di solito non mi impegno in lunghe discussioni su Facebook sulla mia contrarietà al boicottaggio, ho imparato che in genere ciò che ottengo è il like di chi è già convinto e la disapprovazione di chi non lo è e non lo diventerà con un mio post.
Tuttavia, all’indomani di un appello firmato da 168 accademici italiani per il boicottaggio del Technion, riportato dal Fatto Quotidiano con grande enfasi (come dando per scontato che sia cosa buona e giusta), penso che se non dicessi due parole (due parole intese al netto del mio dono per la sintesi) sarei quantomeno un’ingrata.
Sono arrivata a Haifa nell’ottobre del 2013. Ufficialmente studentessa dell’Università, ho passato quasi più tempo al Technion. Inizialmente perché era più vicino a casa e i coinquilini erano del Technion e mi avevano fatto conoscere i loro amici e luoghi di ritrovo. Poi un giorno uno di loro mi dice: “Io sto formando un gruppo di EWB [Ingegneri senza frontiere] per fare un progetto con le comunità beduine del Negev, vieni anche tu”. “A fare cosa, che non sono un ingegnere?”. “A praticare l’arabo, conoscere questo Paese, e poi scusa questo non centra un po’ col peacebuilding, quello che studi tu? Qualcosa da farti fare lo troviamo, yhieh besseder, andrà tutto bene”.
Da allora in due anni il gruppo è cresciuto in persone e capacità organizzative, ognuno col suo ruolo e il suo valore. Dopo tanta preparazione, pazienza, riunioni, viaggi a sud, giornate nel laboratorio, il mese scorso è finalmente iniziata la realizzazione del progetto vero e proprio: un sistema di riscaldamento solare costruito con lattine, che attualmente è in fase di installazione sulla parete di un asilo nido in un villaggio che si chiama Abu Ashiba. Da qui seguiranno le valutazioni, cosa funziona e cosa no, e speriamo nella costruzione di nuovi sistemi o nell’apertura a diverse forme di cooperazione.
L’appello dice che il Technion va boicottato perché lì si fa ricerca per scopi militari. Senza volerlo negare, in quale centro di ricerca, ovunque nel mondo, questo non succede? E comunque io sono stata fortunata, perché date le mie nulle capacità scientifiche i miei amici del Technion mi hanno messo sotto a fare altro. A parte quanto descritto sopra, mi ricordo anche che:
– ho aiutato a scavare un minipozzo, prototipo di un progetto per l’accesso all’acqua che è stato in seguito realizzato in Etiopia
– ho costruito il modellino di una turbina a vento
– ho partecipato a seminari e workshop su ambiente e sostenibilità
– a cui si aggiungono serate al pub, concerti, eventi di ogni tipo, tra cui una conferenza sul cinema e uno spettacolo teatrale in arabo sul tema della Nakba…
e poi perdo il conto.
Con la speranza che questo lungo post renda qualcuno curioso di venire a vedere di persona, e con tanta gratitudine e nostalgia ad un luogo che mi ha fatto crescere, non mi ha mai fatto sentire esclusa e mi ha fatto conoscere il mio valore. E intanto, seguiteci qui https://www.facebook.com/