Il dramma dei bambini yazidi sopravvissuti all’Isis

Il dramma dei bambini yazidi sopravvissuti all’Isis

Sei anni fa la tragedia di questa minoranza religiosa in Iraq. Amnesty International lancia l’allarme sulle sofferenze dei minori ex prigionieri dei jihadisti

Era l’agosto 2014 quando l’Isis attaccò la regione irachena dello Sinjar, dove vivevano 400 mila yazidi: una minoranza antica, coesa da un credo che unisce elementi dello zoroastrismo e delle tre grandi religioni monoteiste. Per i jihadisti, erano degli infedeli e degli adoratori del diavolo, che non meritavano nessuna pietà. Nel giro di tre giorni, l’intera area fu conquistata e per gli yazidi iniziò la peggiore persecuzione mai vissuta nella loro storia.

Sono trascorsi esattamente sei anni da quei giorni drammatici, in cui la comunità internazionale non riuscì a scongiurare la tragedia. Lo Stato Islamico non c’è più: come entità territoriale ha iniziato a disgregarsi dal 2017. Di yazidi non parla quasi più nessuno: nel mondo altre tragedie incombono, e i titoli dei giornali guardano altrove. Amnesty International ha indagato per capire cosa è successo ai sopravvissuti di quei giorni terribili, focalizzando la sua attenzione in particolare sui bambini. Il rapporto L’eredità del terrore, appena reso noto e basato su interviste realizzate in Iraq a febbraio di quest’anno, denuncia che quasi 2000 minorenni yazidi, che sono riusciti a ritrovare le loro famiglie d’origine, sono tuttora vittime di problemi di salute fisica e mentale.

Per capire il dramma di questi minori, occorre ritornare a quella guerra che ha distrutto la comunità yazida. Quando un villaggio veniva catturato dall’Isis, gli uomini e i ragazzi di oltre 12 anni venivano separati dalle donne e dai bambini. Chi accettava di convertirsi all’Islam, veniva destinato ai lavori forzati. Gli altri erano assassinati seduta stante. Le donne e le bambine dai 9 anni in su venivano vendute in veri e propri mercati di schiave. La loro sorte era segnata: erano destinate a essere oggetto di violenza sessuale di singoli combattenti o di gruppo, costrette a lavorare come domestiche e maltrattate dai padroni e dalle loro famiglie. I bimbi più piccini spesso erano lasciati alle madri, e durante la prigionia hanno assistito alle violenze cui erano sottoposte. Quanto ai maschi fra i 7 e i 12 anni, venivano strappati alle madri e condotti in campi militari dell’Isis per essere trasformati in bambini soldato.

Amnesty International riporta che l’Ufficio per gli yazidi rapiti del Governo Regionale del Kurdistan iracheno ha registrato 3530 persone rientrate dalla prigionia dell’Isis, delle quali 1538 sono adulti e 1992 bambini. In alcuni casi, i membri della famiglia che si erano salvati hanno pagato un riscatto dai 5000 ai 20 mila dollari (dai 4250 a circa 17 mila euro) per riavere la propria persona cara, indebitandosi fino al collo con la comunità per mettere insieme il denaro.

Alla gioia iniziale di riabbracciare un bambino rapito è subentrata la presa di coscienza di quant’era accaduto. Il minore che è tornato indietro non era più la stessa persona, nel fisico e nella mente. Gli operatori umanitari, i medici, gli psicologi che Amnesty International ha interpellato hanno lanciato l’allarme in particolare su due categorie di minorenni sopravvissuti: gli ex bambini soldato e le bambine sottoposte a violenza sessuale. L’organizzazione, con le dovute precauzioni, ha raccolto le voci di alcuni di loro.

Rayan, reclutato dall’Isis a 15 anni, rappresenta la situazione tipica dei bambini soldato sopravvissuti. «Mi avevano messo di guardia in prima linea quando sono stato colpito da una granata. Un pezzo del proiettile è finito nel tendine della mia gamba destra. Sono tre anni che sono tornato, ma non è successo nulla. Resta nel mio corpo».

Molti di questi minori hanno perso mani, braccia e gambe nei combattimenti. Non è devastato solo il corpo, ma anche la psiche: stress post traumatico, ansia e depressione sono frequenti, e i ragazzini possono esternare iperattività, aggressività, incubi ricorrenti. «I ragazzi yazidi reclutati con la forza dall’Isis hanno affrontato mesi, talora anni di propaganda, indottrinamento e addestramento militare, finalizzati a cancellare la loro identità precedente, la lingua, la cultura e persino i loro nomi», dice il rapporto di Amnesty International. Fra i minori salvati, alcuni non erano più in grado di parlare il dialetto curdo kurmanji della comunità yazida. I familiari si sono trovati abbandonati a stessi, chiamati a gestire situazioni che non sanno come fronteggiare. La madre di Arzan, un 14enne con attacchi di rabbia, iperattività e aggressività, racconta: «Sognavo che mio figlio ritornasse da me. Ma da quando è accaduto, non abbiamo avuto un pasto, un momento insieme di normalità… Non poteva essere peggio di così». Ovviamente per un ragazzino in queste condizioni è faticoso rientrare a scuola, che è il primo passo verso il reinserimento nella comunità, e anche verso un futuro di speranza.

La situazione delle ragazze è ancor più drammatica. Un medico che ha offerto aiuto a centinaia di donne yazide sopravvissute ha raccontato di non ricordare neppure una minore fra i 9 i 17 anni che non fosse stata violentata o sottoposta a qualche forma di violenza sessuale. I programmi umanitari indirizzati alle vittime di violenza sono per lo più rivolti più alle donne, e meno alle ragazze, secondo alcuni esperti interpellati. Resta il fatto che moltissime di queste ragazzine sono diventate forzatamente madri durante la prigionia, a causa delle violenze subite. La posizione della massima autorità religiosa yazida non è clemente verso i loro bambini, che vengono respinti dalla comunità. Inoltre, la legge irachena complica ulteriormente le cose: ogni bambino di padre musulmano o sconosciuto va registrato come musulmano. Le madri minorenni al rientro sono state costrette a separarsi dai loro figli, pena l’ostracismo della comunità. Molte di loro hanno tentato il suicidio. «Vorrei dire a tutti nel mondo, accettateci e accettate i nostri bambini», dice Janan, 22 anni, yazida ed ex prigioniera dei jihadisti. «Siamo sopravvissute all’Isis, immaginate il dolore che abbiamo patito. Non volevo avere un figlio da questa gente. Ma sono stata costretta a mettere al mondo un bimbo. Non chiederò mai di rivedere suo padre, ma ho bisogno di rivedere mio figlio». Amnesty International sollecita le organizzazioni internazionali quali l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati a trovare una soluzione per ricollocare queste donne con i loro bambini altrove, dove siano al sicuro.

Un altro grave problema è rappresentato dai documenti: chi li ha perduti a causa della guerra deve presentare richiesta preparandosi a ingenti costi e lunghe attese. Intanto, la mancanza del documento d’identità pregiudica la possibilità del bambino ex prigioniero di andare a scuola o di muoversi liberamente sul territorio con la famiglia. È ancora peggio quando i familiari sono costretti a recarsi negli uffici pubblici nello Sinjar o in altre zone che gli yazidi percepiscono come insicure. «Ci abbiamo messo tre mesi dopo il rientro di mio figlio per riavere un documento», racconta Arzan, madre di due ragazzini sopravvissuti, di 14 e 16 anni. «Siamo andati a Mosul tre volte, col terrore che l’Isis riconoscesse me o i bambini».

Chi è sopravvissuto all’Isis può reputarsi fortunato, malgrado la violenza e il dolore subiti. Centinaia di adulti e bambini yazidi mancano ancora all’appello, e i responsabili dei crimini accaduti dopo il 2014 anche a danno dei minori devono essere assicurati alla giustizia.

 

Foto: Amnesty International