Indiani, nepalesi e filippini: l’altra faccia del Qatar

Indiani, nepalesi e filippini: l’altra faccia del Qatar

Nel Paese al centro del conflitto geopolitico di queste ore i lavoratori stranieri sono oltre l’80% della popolazione. Gli immigrati indiani sono il doppio dei qatarioti e c’è una parrocchia dove ogni domenica è Pentecoste

 

Come anticipavamo su questo sito già qualche giorno fa, puntuale nel Golfo è esploso lo scontro con il Qatar. Come tutti i media hanno raccontato Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrein ieri all’alba hanno rotto le relazioni deplomatiche con Doha, seguiti a ruota da alcuni altri Paesi sunniti legati all’orbita saudita. Si tratta di una resa dei conti tra Riad – uscita rafforzata dal nuovo asse con Washington – e l’emirato guidato dalla famiglia Al Thani, che in questi anni ha cercato di giocare una partita propria nella regione, anche attraverso il sostegno al movimento dei Fratelli Musulmani. Dietro alla facciata della lotta al terrore jihadista, sta andando in scena l’epilogo di una lotta di potere che Riccardo Redaelli oggi spiega molto bene in questo articolo di Avvenire.

C’è però un aspetto che ancora tarda a emergere nelle analisi e che a noi sembra importante mettere in luce. Tra quanti rischiano grosso in questo scontro ci sono anche centinaia di migliaia di lavoratori migranti portati a Doha dalle rotte globali del mercato del lavoro di oggi. Anzi: a essere precisi sono quelli che rischiano di più nel vero e proprio strangolamento economico che le potenze sunnite stanno mettendo in atto per indebolire l’emiro Al Thani.

Pochi lo sanno, infatti, ma i cittadini del Qatar sono oggi appena il 12 per cento della popolazione reale del Paese: 313 mila persone, a fronte di circa 2,6 milioni di abitanti. Come è facile dedurre da questo dato i qatarioti non sono nemmeno il gruppo etnico più numeroso. A mostrarlo bene sono alcune cifre forniti sul suo blog da Pryza DSousa, una giornalista figlia di immigrati indiani che vive in Qatar ormai da quarant’anni. Il Paese d’origine non è casuale: gli indiani, infatti, sono oggi il gruppo nazionale più popoloso in Qatar, 650.000 persone, un quarto dell’intera popolazione, vale a dire più del doppio rispetto ai qatarioti. I quali – peraltro – sono superati anche dagli immigrati nepalesi, che sono comunque 350.000. Numericamente non molto distanti rispetto agli abitanti originari del Paese, poi, sono anche i lavoratori immigrati bangladesi (280.000) e i filippini (260.000). Altro dettaglio interessante: il sesto gruppo etnico sono gli egiziani (200.000) cioè proprio gli abitanti di uno dei Paesi che hanno interrotto le relazioni diplomatiche con Doha.

Ad attrarre tutti questi migranti, a partire dagli anni Settanta, è stato il boom dell’industria petrolifera a cui sono seguite a catena tutte le altre attività: costruzioni, giardinieri, cuochi, camerieri, domestici e (negli ultimi anni) anche il settore dei trasporti con tutti i servizi di quelle vere e proprie città che sono oggi gli hub dei voli intercontinentali della Qatar Airways.

Vale la pena di ricordare, infine, che in queste centinaia di migliaia di lavoratori stranieri sono numerosi anche i cristiani, che hanno il loro punto di ritrovo nella chiesa di Nostra Signora del Rosario a Doha. A questo proposito basta dare un’occhiata all’orario delle Messe della parrocchia per rendersi conto di quale Pentecoste di lingue e riti sia questa comunità (a cui poi ovviamente andrebbero sommati i fedeli delle altre confessioni cristiane). Qualche anno fa su Mondo e Missione raccontavamo le difficoltà ma anche tutta la vitalità di questa comunità in questo reportage realizzato da Doha da Chiara Zappa: una fotografia che per molti versi resta ancora attualissima.

Tutto questo per dire che non c’è solo il volto sfavillante dei grattacieli e dei petrodollari dietro allo scontro di questi giorni. C’è anche la vita e il futuro di centinaia di migliaia di persone venute da lontano e che ora rischiano di pagare il prezzo più alto in questa escalation tra autocrazie islamiche. Ricordandoci quanto complesso e interdipendente sia realmente il mondo in cui oggi viviamo.