A sei mesi dall’inizio delle proteste di piazza, l’emergenza Coronavirus ha dirottato l’attivismo sui social e verso il servizio ai cittadini più vulnerabili. Ma qualcosa è già cambiato
Era lo scorso ottobre, esattamente sei mesi fa, quando le piazze irachene e libanesi si riempivano di giovani manifestanti che, quasi all’unisono nonostante la distanza, invocavano a gran voce la “thawra”, la rivoluzione.
Due mobilitazioni “gemelle” e altrettanto dirompenti, seppure in contesti differenti e con reazioni da parte del potere di proporzioni ben diverse: una vittima della repressione e alcune centinaia di feriti in Libano, più di 600 morti e 27mila feriti in Iraq. Entrambe le proteste, tuttavia, affondavano le loro radici nell’esasperazione della gente di fronte alla cronica corruzione e inefficienza del sistema politico, alla conseguente carenza dei servizi essenziali – dall’acqua all’elettricità -, alla disoccupazione come destino ineluttabile per i giovani, in particolare quelli con un elevato grado di formazione. Ed entrambe – il dettaglio che ne marcava la novità – invocavano apertamente il superamento delle divisioni religiose e settarie che, in entrambi i Paesi, regolano da decenni la vita politica e sociale.
La richiesta dei ragazzi nelle piazze, quella che faceva così tanta paura all’establishment libanese e iracheno, non erano le dimissioni di un presidente o di un primo ministro, ma il cambiamento dell’intero sistema politico: protagonisti e regole.
«Tutti significa tutti», era lo slogan che riecheggiava, per la prima volta, dal Nord al Sud del Libano, e non solo nella capitale. Mentre in Iraq – a Baghdad e in tutto il Sud sciita – i giovani chiedevano indietro «una Patria», per troppo tempo ostaggio di influenze e interessi esterni.
Che ne è stato, sei mesi dopo, di quelle rivoluzioni? Sono ancora vive? E sono riuscite a scalfire i sistemi, apparentemente inossidabili, contro cui si scagliavano? In entrambi i casi, lo scossone inferto al potere è stato sensibile, anche se il cambiamento sognato resta lontano.
In Iraq, il panorama politico ha accusato il colpo e ha vacillato. A dicembre il parlamento ha accettato le dimissioni del primo ministro Adel Abdel Mahdi, ma da allora due candidati premier, scelti dal presidente Barham Salih, hanno fallito nel compito di formare un nuovo governo. Ora le speranze si concentrano sul terzo nome proposto pochi giorni fa dal presidente: il capo dell’intelligence Mustafa Al Kadhimi, un indipendente che pare avere il supporto sia degli Stati Uniti sia dell’invadente vicino iraniano, oltre che delle fazioni sciite in parlamento. Ma proprio questo ennesimo tentativo di compromesso tra potenti attori in gioco dimostra che le logiche di parte e le spartizioni d’influenza settarie restano un elemento chiave della politica irachena.
Nell’attesa che Khadimi riesca a creare un governo entro i trenta giorni a disposizione, l’Iraq dovrà provare a contenere il diffondersi dell’epidemia di Coronavirus, che ha inferto un nuovo duro colpo alle condizioni di vita della popolazione. Il lockdown imposto dalle autorità sta minacciando pesantemente la fascia sociale più bassa, quella che dipende dal lavoro quotidiano per vivere. I dimostranti, da parte loro, in larga parte hanno accettato, per responsabilità, di ritirarsi temporaneamente dalle piazze, lasciando solo alcuni gruppi a “tenere le postazioni”. Mentre l’attivismo politico, in queste settimane, è dunque relegato soprattutto ai social media, molti giovani hanno dirottato il loro impegno verso il supporto materiale ai concittadini più bisognosi. Attraverso le organizzazioni della società civile, forniscono cibo e farmaci e partecipano a campagne informative sul virus.
Qualcosa di molto simile a ciò che sta accadendo in Libano, dove i rivoluzionari, allontanati – in alcuni casi con la forza – dai loro quartier generali all’aperto, hanno scelto di dimostrare lo stesso senso civico che invocano da mesi mettendosi a disposizione delle realtà in prima linea nell’emergenza Covid-19. Molti stanno seguendo la formazione della Croce rossa e unendosi a chi distribuisce aiuti a poveri, anziani e soggetti vulnerabili, soprattutto nei distretti più disagiati, come Tripoli o lo Chouf.
Nel Paese, le rivolte di piazza hanno smosso gli equilibri politici, ma la classe dirigente sta dimostrando per l’ennesima volta la propria incapacità ad affrontare le sfide enormi della società libanese. Se già alla fine dello scorso ottobre il premier Saad Hariri aveva accettato di dimettersi, il governo “tecnico” formato a fine gennaio dal nuovo primo ministro incaricato Hassan Diab (gradito all’asse politico vicino al filo-iraniano Hezbollah) resta espressione del vecchio sistema di potere. E, finora, non ha fatto altro che constatare la situazione catastrofica dell’economia nazionale, con l’annuncio, il 7 marzo, del default dello Stato.
Si tratta della peggiore crisi economica e finanziaria degli ultimi tre decenni, segnata, tra l’altro, dalla grave svalutazione della lira locale, dall’inflazione alle stelle e da un picco nel tasso di disoccupazione. Tutto questo aggravato oggi, puntualmente, dalla pandemia di Coronavirus, con la sospensione forzata delle attività che in molti casi si tradurrà in una chiusura definitiva di aziende già provate dalla crisi. E con i poveri – secondo il ministero delle Finanze circa il 45% dei libanesi vive sotto la soglia di povertà relativa e oltre il 20% sotto quella di povertà assoluta – ridotti alla fame. Per loro, il governo ha annunciato un programma di aiuti di cui dovrebbero beneficiare circa 200 mila famiglie. Ma che non potrà comunque risolvere la crisi umanitaria dei campi profughi sul confine siriano.
Passata l’emergenza Covid-19, dunque, i giovani torneranno a richiamare il potere alle sue responsabilità. E, anche se i loro Paesi saranno duramente provati, non dovranno ricominciare tutto da capo, perché questi ragazzi qualcosa sono già riusciti a cambiare. I loro genitori, fino a ieri paralizzati dal ricordo delle violenze settarie della guerra civile in un caso e da quello della repressione implacabile di Saddam Hussein nell’altro, hanno visto una nuova generazione in grado di unirsi al di là delle appartenenze religiose o tribali ma anche oltre le differenze di genere e anagrafiche, per un fine comune. Hanno visto ragazzi per cui il linguaggio di chierici militanti non ha più significato, in quanto chiaramente inadeguato a risolvere i loro problemi quotidiani. Ragazzi che, imparando dagli errori del passato, hanno fatto di tutto per mantenere le loro proteste pacifiche, e non prestare il fianco a chi cercava di strumentalizzarle.
Tutto questo, a prescindere dai risultati politici immediati, ha già instillato un cambio di mentalità nelle società di Libano e Iraq. Su questo si potrà continuare a costruire.