Fu uno dei disastri ecologici peggiori della storia. Dopo 25 anni a Milano una mostra con le immagini del grande fotografo Sebastião Salgado ci ricorda cosa fu l’incendio dei pozzi petroliferi in Kuwait.
Sebastião Salgado /Amazonas Images/Contrasto
«Erano per l’esattezza 732 i pozzi di petrolio in fiamme. Non sapevamo da che parte cominciare». A parlare, seduto accanto al grande fotografo brasiliano Sebastião Salgado è Mike Miller, uno dei pompieri che nel 1991 fronteggiarono uno dei disastri ecologici peggiori della storia: l’incendio da parte dei soldati iracheni dei pozzi petroliferi in Kuwait, per ostacolare l’avanzata della coalizione militare guidata dagli statunitensi.
Oggi a Milano è stato lo stesso Salgado a inaugurare la mostra “Kuwait. Un deserto in fiamme”, che resterà aperta fino al 28 gennaio alla galleria Forma Meravigli. Le foto, terribili nella loro bellezza estetica, rievocano una «situazione caotica e folle», da fine del mondo. «Ci vollero 200 giorni per spegnere gli incendi, il petrolio che bruciava e ricopriva di nero tutto ciò che ci circondava», ha ricordato Miller. «E poi ci vollero altri due anni per terminare il lavoro. Ci rendevamo conto che si trattava del disastro ambientale peggiore della storia».
Salgado fu tra i primi fotografi a intuire la reale portata e la gravità di questa situazione. E partì per documentare la distruzione dell’ambiente e il duro lavoro degli uomini che provavano a spegnere gli incendi. Le fotografie del Kuwait in fiamme fanno parte di uno dei grandi lavori del fotografo brasiliano, “La mano dell’uomo”, che documenta il valore, ma anche la sofferenza, del lavoro manuale e la condizione degli operai. La mostra di Milano ha, in più rispetto a quelle già esposte in passato, delle foto inedite aggiunte da poco dal fotografo. «Di recente mi sono fratturato un ginocchio e ho dovuto subire due operazioni», racconta Salgado. «Così ho avuto tempo di rivedere i miei lavori e, a 25 anni dal disastro in Kuwait mi sembrava importante tornare a raccontare questa storia, che fa parte della nostra vita, del nostro passato anche se è accaduta in un luogo che può apparire “remoto” come il Kuwait.
«Le foto sono lo specchio della nostra società, ma per un fotografo è anche ciò che alla società possiamo restituire», ha aggiunto Salgado. «Il mio obiettivo è sempre stato cercare di comprendere la realtà in cui viviamo. La fotografia non può di certo cambiare il mondo. Ma può aiutare, insieme all’informazione, a renderci più consapevoli di alcune questioni di cui non ci rendiamo conto da soli, che sembrano lontane ma fanno parte della nostra vita, come quello che è accaduto in Kuwait».
«Durante il lavoro “La mano dell’uomo”, mi sono sentito spesso fiero di appartenere alla specie umana – ha detto ancora Salgado -, per la capacità che abbiamo di trasformare la realtà, per la dignità del lavoro. Ma altre volte ho provato vergogna, quando mi è capitato di sbattere contro il muro dei nostri comportamenti nei confronti degli altri esseri umani e del pianeta. Ho toccato con mano una capacità distruttiva dell’uomo che va oltre l’immaginabile».
In un altro suo grane progetto, Genesi (come sempre realizzato in collaborazione con la moglie Lélia Wanick Salgado), il grande fotografo brasiliano ha indagato il rapporto con la natura, raccontando con le sue immagini la bellezza del creato, come risorsa magnifica da raccontare, contemplare, conoscere, amare.
Le sue immagini del Kuwait rievocano invece la capacità distruttiva di cui l’uomo può essere capace, e ci ricordano uno dei drammi della nostra storia recente, del quale forse non siamo stati neppure consapevoli.