Dietro l’immagine di un Paese dominato dall’islam sciita, l’Iran cela una realtà molto più articolata e sorprendente di popoli, tradizioni e religioni diverse. Comprese antichissime presenze cristiane
La strada, stretta e tortuosa, si snoda sul fianco di una valle scoscesa, scavata dal fiume che scorre sul fondo dall’intenso colore della giada. Sul lato opposto, una ferrovia apparentemente dismessa e diverse torrette di controllo rompono l’incanto di un percorso idilliaco e carico di storia.
Il fiume Aras, infatti, è il biblico Ghion della Genesi, uno dei quattro fiumi che escono dal Giardino dell’Eden. E questa valle è stata per millenni terra di passaggio di viandanti, missionari, eserciti e commercianti. Siamo poco lontani dalla Turchia e al confine tra Naxçivan (exclave dell’Azerbaijan), Armenia e Iran. Una regione sorprendente, non solo per queste frontiere scolpite da millenni di storia guerriera e bizzosa. Ma perché tutto, o quasi, in questa terra, rinvia a riferimenti biblici. Eppure siamo in Iran.
Basta allontanarsi dai circuiti classici del turismo che si è affacciato con sempre maggiore entusiasmo su questo Paese pieno di fascino e di poesia, per andare oltre le meraviglie dell’antica Persia e le monumentali tracce delle dominazioni islamiche degli ultimi secoli. C’è un Iran, specialmente nella regione nord-occidentale, che continua a raccontare un’antica storia di cristianesimo. Ne è mirabile testimonianza il monastero di Santo Stefano nei pressi di Jolfa, antico villaggio armeno da cui lo scià Abbas deportò tutta la popolazione nel 1604 per trasferirla a Isfahan affinché gli abili artigiani cristiani contribuissero alla costruzione della nuova meravigliosa città, dove tuttora risiedono i loro discendenti, nel quartiere cristiano di Nuova Jolfa. Di quella antica, invece, resta ben poco se non appunto, sulle alture circostanti, il monastero di Santo Stefano, il cui nucleo originario risalirebbe alla presenza di san Bartolomeo giunto da queste parti nel 62 dopo Cristo. Ancora più a nord e ancora più suggestivo, perso nella campagna ondulata dei dintorni di Maku – in direzione del mitico monte Ararat – la Qareh Kalisa (chiesa nera) o monastero di San Taddeo viene associato alla presenza e al martirio di Giuda Taddeo, uno dei dodici apostoli giunto sin qui attorno al 45 dopo Cristo. Insieme a Santo Stefano e alla cappella di Dzordzor, è stato riconosciuto come monumento patrimonio dell’umanità dall’Unesco. E nel luglio dello scorso anno la Repubblica islamica dell’Iran ha stanziato 370 mila dollari per i restauri di questo luogo di culto cristiano, dove ogni anno moltissimi armeni danno vita a un suggestivo pellegrinaggio di tre giorni durante i quali si celebrano i matrimoni o i sacramenti dell’iniziazione cristiana.
E, tuttavia, non c’è solo il passato a testimoniare di questa diversità. Questa regione in particolare, (ma anche altre zone del vasto altipiano iranico) è ancora oggi un mosaico di popoli diversi, come i curdi, gli azeri, gli arabi o i lur, e di lingue differenti come il turco, il talesh o il gilaki. Oltre che di religioni. La presenza cristiana è testimoniata non solo negli edifici antichi, ma anche da alcune piccole comunità tuttora esistenti.
I CRISTIANI in Iran sono circa 800 mila di varie confessioni, anche se la maggioranza sono armeni. Ma in una città come Urmia – nei pressi dell’omonimo lago di sale, immenso e lunare – è possibile ritrovare le stratificazioni di una presenza variegata di armeni, caldei, nestoriani e assiri che, per secoli, ha convissuto con la maggioranza azera musulmana e una significativa comunità ebraica. Ancora oggi – nonostante la dispersione avvenuta nel 1918 in seguito all’invasione turco-ottomana e all’indomani del genocidio armeno appena al di là del confine – a Urmia ci sono sei confessioni cristiane diverse.
È una piccola ma significativa testimonianza di come il pluralismo religioso, ma anche etnico, linguistico e culturale, provi tenacemente a sopravvivere nonostante il regime oppressivo e oscurantista degli ayatollah.
E i cristiani non solo i soli. Innanzitutto perché esiste una minoranza consistente di arabi musulmani sunniti i cui rapporti con la maggioranza sciita sono spesso conflittuali. Mentre gli ebrei – ormai ridotti a piccolissimi numeri – e gli zoroastriani – che invece sono in crescita – vengono riconosciuti formalmente dallo Stato, anche con un seggio nel Parlamento di Teheran. Non così per i baha’i – 350 mila in Iran e due milioni circa nel mondo – il cui movimento, nato in seno all’islam sciita a metà Ottocento, viene apertamente perseguitato. Nel 2013, la Guida suprema Ali Khamenei ha emesso una fatwa che condanna i baha’i per apostasia, aggravando ulteriormente la loro situazione. Già in precedenza, infatti, molti venivano messi in carcere con l’accusa pretestuosa di reato d’opinione.
L’organizzazione Open Doors/Porte Aperte, che monitora la libertà religiosa nel mondo e pubblica ogni anno la World Whatch List sulle persecuzioni dei cristiani, mette in rilievo la discrepanza che, in un Paese come l’Iran, esiste tra la leadership al potere che vede nei cristiani e nelle altre minoranze una seria minaccia e che punisce severamente le conversioni dall’islam, e la grande maggioranza della popolazione molto meno fanatica e decisamente più aperta e dialogante. Una popolazione spesso estremamente consapevole e orgogliosa delle sue radici preislamiche, che si rifanno allo splendore dell’impero persiano e a una tradizione millenaria di tolleranza, di cui Ciro il Grande, “re dei quattro angoli del mondo”, fu un luminoso esempio.
ANCORA OGGI, di fatto, il cristianesimo continua a crescere in Iran più che in qualsiasi altro Paese del Medio Oriente. E questo nonostante discriminazioni e limitazioni e, soprattutto, nonostante la forte emigrazione, che si è accentuata all’indomani della rivoluzione komeinista e che continua incessantemente anche e specialmente per ragioni economiche.
Ma la religione che oggi sta conoscendo una nuova primavera in Iran è anche la più antica del Paese: lo zoroastrismo. Una religione monoteista che viene fatta risalire a Zoroastro (o Zarathustra) vissuto probabilmente nel VI secolo a.C. e che, come spiega Anna Vanzan, islamologa e grande esperta di Iran, «è stata la religione nazionale a cominciare dal periodo achemenide, quello di Ciro e di Dario, tra il 539 e il 332 avanti Cristo. Era una religione piuttosto complessa e appannaggio soprattutto delle élite – spiega la studiosa -. Nel periodo successivo, quello sasanide, a cavallo dell’era cristiana e prima dell’avvento dell’islam, lo zoroastrismo è diventato a maggior ragione una religione molto aristocratica. Ma di questo aspetto gli iraniani tendono a dimenticarsi. Molti, infatti, identificano l’islam con la politica liberticida del regime e si allontanano dalla religione musulmana per abbracciare religioni antiche, trascurando, appunto, l’aspetto elitario. Si ricorda piuttosto un grande episodio che è stato rispolverato qualche anno fa quando il British Museum ha prestato il famoso cilindro di Ciro a un museo di Teheran. Questo cilindro è considerato in un certo senso la prima Carta costituzionale del Medio Oriente. Ciro, che pure dominava su un territorio vastissimo con molti popoli e religioni differenti, vi proclama la sua volontà di rispettare la lingua, le tradizioni, i costumi altrui e soprattutto le religioni. La presenza di questo cilindro a Teheran ha ricordato agli iraniani di appartenere a una civiltà superiore alle altre per questa grande tradizione di tolleranza, confermando lo zoroastrismo come un’alternativa possibile a un islam “usato” come fattore di coercizione».
Nell’incantevole città di Yazd, sprofondata nel deserto 600 chilometri circa a sud di Teheran, si concentra oggi la più importante comunità di seguaci dello zoroastrismo. Circa cinquemila persone che hanno come luogo di riferimento l’Ateshkadeh, il Tempio del Fuoco, dove arde una fiamma perenne. Ed è qui che si recano in una sorta di pellegrinaggio anche gli zoroastriani che sono sparsi in tutto il mondo, una comunità di circa 150 mila persone che, tuttavia, proprio in Iran e nonostante le difficoltà, sta crescendo. Ma chi arriva a Yazd non può non visitare – oltre alle ingegnose torri del vento progettate per garantire un efficace sistema di aerazione nelle abitazioni – le cosiddette Torri del silenzio. Bisogna spingersi un poco più a sud, nei pressi di due brulle colline. Qui, sino agli anni Sessanta, i corpi dei defunti venivano esposti e lasciati alla mercé degli avvoltoi, affinché poi se ne potessero seppellire solo le ossa, non contaminando così la purezza della terra.
Gli zoroastriani credono nella resurrezione del corpo e dell’anima. Ma credono soprattutto in un dio unico – Ahura Mazda (Signore Sapiente) – e in un universo formato da bene e male. Un dualismo che sarebbe presente anche nell’uomo.
SECONDO Vincenzo Lopasso, professore invitato dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, che ha contribuito con un capitolo su “Persia e Bibbia” all’interessante “Guida storico-archeologica” delle Edizioni Terrasanta, «negli scritti apocalittici biblici e giudaici si ritrova una concezione analoga del dualismo zoroastriano. In entrambi i casi, il conflitto tra bene e male non ha soltanto una rilevanza teorica: è una dimensione del comportamento etico riguardante la vita di ogni giorno. Tale dualismo si ritrova anche negli scritti della comunità di Qumrân». Anche la simbologia biblica della luce e delle tenebre può rimandare al pensiero persiano ma, più in generale, questo pensiero e la sua diffusione non sono stati, sempre secondo Lopasso, «senza conseguenze sulla formazione delle idee e delle concezioni bibliche e giudaiche». Perlomeno come «spinta allo sviluppo di idee e di concezioni all’interno di quel percorso di fede maturato dai giudei nel corso dei secoli passati».
L’“altro Iran” ci racconta anche di questo. Non solo come una traccia lasciata nella memoria delle civiltà mediorientali, ma come ricchezza e complessità che, in modo quasi impercettibile ma vero e reale, continua a essere parte integrante della storia attuale di questo Paese.