Papa Francesco ha indetto per il 4 settembre una giornata di preghiera per il Paese dei Cedri. Dove tra le vittime della crisi economica, del Covid e dell’esplosione del 4 agosto ci sono anche migliaia di migranti asiatiche e aficane abbandonate a se stesse
È passato ormai quasi un mese dalla tremenda esplosione di Beirut, icona dolorosa della crisi che il Libano attraversa. Mentre si moltiplicano le visite dei leader politici e il Paese cerca di darsi un nuovo governo, Papa Francesco oggi al termine dell’udienza generale ha lanciato un appello ai libanesi a «non abbandonare le case e la vostra eredità e a non far cadere il sogno di quanti hanno creduto nell’avvenire di un Paese bello e prospero». Parole che ha accompagnato con un gesto: l’indizione per venerdì 4 settembre di una giornata di digiuno e di preghiera per il Libano, che vedrà anche una missione a Beirut del segretario di Stato vaticano, il cardinale Piero Parolin, per esprimere la vicinanza e solidarietà del Pontefice.
Dentro il dramma generale del Paese ce n’è però anche uno che rischia di rimanere molto nascosto: quello delle migliaia di donne migranti africane e asiatiche che nelle case dei libanesi avevano trovato un lavoro e in questi mesi hanno perso tutto. Si stima che – in un Paese che conta 4 milioni di abitanti – fossero almeno 250.000 lavoratrici domestiche soggette al discusso sistema della kafala, un tipo di rapporto in cui è il datore di lavoro l’unico «sponsor» del migranti, che ha così la possibilità di imporre qualsiasi condizione.
Già la grave crisi economica in cui versa il Paese e gli effetti della pandemia avevano portato molti datori di lavoro a licenziare: particolarmente grave si era rivelato il problema per queste donne provenienti principlamente da Paesi come l’Etiopia, le Filippine, lo Sri Lanka o il Ghana, che si erano ritrovate da un giorno all’altro in mezzo a una strada e senza alcuna tutela. L’esplosione del 4 agosto ha fatto poi il resto: tra le vittime e i dispersi ci sono anche 13 lavoratori stranieri – filippini, pakistani, bangladesi, indiani – e una donna kenyana; ma soprattutto altre migliaia di migranti sono rimasti senza casa, con gravissime difficoltà anche ad essere rimpatriati a causa dell’emergenza Covid.
Il risultato sono immagini come quella che accompagna questo articolo: una quarantina di donne etiopi ritratte qualche sera mentre dormivano per strada sul piazzale davanti all’ambasciata del loro Paese. A diffonderla è stata Banchi Yimer, fondatrice di Egna Legna Besidet, un’associazione di donne etiopi che in Libano si batte per la difesa della dignità del proprio lavoro. Grazie a questa mobilitazione 105 donne sono potute tornare in Etiopia in questi giorni; e interventi analoghi sono stati promossi da altre realtà della società civile libanese. Ma il problema resta tutt’altro che risolto.
In discussione è soprattutto il sistema stesso della kafala che – oltre a esporre i migranti al pericolo di truffe, riduzione in schiavitù o abusi sessuali – non prevede alcuna forma di tutela in caso di calamità. Un altro tema che non andrebbe dimenticato per aiutare il Libano a voltare pagina davvero.