Dopo le catacombe la cattedrale nel deserto

Dopo le catacombe la cattedrale nel deserto

La prima chiesa cristiana in Qatar: Nostra Signora del Rosario è il simbolo della svolta promossa dall’emiro «illuminato» in questa «appendice dell’Arabia Saudita». Tra speranze e tante contraddizioni

 

dall’inviata a Doha (Qatar)

 

Se dal centro di Doha si imbocca Al Muntazah Road e si prosegue verso sud, in venti minuti di auto ci si trova nel mezzo del deserto. Dicono che non ci vorrà molto perché anche la zona periferica di Mesaimeer sia inglobata dalla metropoli che meglio di tutte, nella regione, sta riuscendo nell’impresa di conciliare la tentazione della crescita futuristica con il rispetto della propria identità. Finora, però, qui non c’è altro che sabbia chiara e una strada polverosa. E poi, in lontananza, una costruzione isolata, dalla silohuette elegante. Man mano che l’auto si avvicina, l’edificio prende forma: una cupola a raggiera e, nel mezzo, una specie di tozzo campanile, anche se rigorosamente senza campane e senza croce.

«Per farci approvare il progetto abbiamo dovuto chiarire che si trattava di una rivisitazione della torre del vento, elemento architettonico tradizionale del Paese!». A ricordare il lunghissimo iter di questa cattedrale nel deserto è Renato Casiraghi, colui che, a fianco dell’allora vicario apostolico Bernardo Gremoli, ha dedicato quasi vent’anni della sua vita al sogno di una chiesa nella terra del Qatar, «praticamente un’appendice della rigorosissima Arabia Saudita». Casiraghi è l’architetto di Nostra Signora del Rosario, il primo luogo di culto cristiano nel Paese, la cui inaugurazione due anni fa ha rappresentato un evento epocale, e non solo per i fedeli.

Gli anni delle «catacombe», da queste parti, sono ancora vivi nella memoria di tanti cristiani. «An¬che se la missione cattolica è presente dal 1956, per decenni abbiamo celebrato la Messa nelle case private: i nostri due bambini sono stati cresimati in casa», ricorda la signora Loredana, moglie di Casiraghi. Quella di Renato e Loredana è una storia speciale, in cui il Qatar è il luogo del destino. O meglio, «della Provvidenza». Trentacinque anni fa, da giovani sposini con un figlio piccolo, arrivarono qui per motivi professionali: «L’azienda per cui lavoravo era stata incaricata di costruire il primo dissalatore di acqua marina, visto che il Paese cominciava a svilupparsi proprio in quegli anni», racconta Casiraghi. A Doha, però, la giovane famiglia fece due incontri che le cambiarono la vita: quello con lo stesso monsignor Gremoli – «un grande uomo di fede, che da vicario d’Arabia ha costruito ben undici chiese nella regione» – e quello con la famiglia reale, per cui i Casiraghi (Loredana è designer di interni) realizzarono alcuni progetti: «Quando, nel 1986, tornammo in Italia con l’idea che la parentesi qatarina fosse chiusa, l’emiro ci chiese con grande insistenza di tornare, per occuparci della progettazione di una sua nuova villa», racconta la coppia. «Alla fine, decidemmo di seguire quella che sembrava la strada tracciata per noi». Iniziò, così, l’avventura di Nostra Signora del Rosario.

«Io amo dire che ho costruito la casa del re, e anche la casa del Re dei Re!», scherza Renato. Nel 1995, infatti, salì al potere il nuovo emiro Hamad Bin Khalifa al-Thani, lo stesso che nel 2004 avrebbe sancito ufficialmente la libertà di culto. Dall’avvento dell’emiro “illuminato”, il sogno di una chiesa in Qatar sembrò finalmente più vicino a diventare realtà. Ma, per concretizzarlo, ci volle ancora tanta pazienza: «Non tutto l’entourage dell’emiro si dimostrò aperto come lui, al contrario amministratori e burocrati non facevano altro che metterci i bastoni tra le ruote», racconta l’architetto. «Ci organizzammo, insieme alle altre denominazioni cristiane, per dare più forza alla nostra richiesta di un terreno dove poter costruire, in prospettiva, non solo la chiesa cattolica ma anche luoghi di culto di altre confessioni cristiane». Servirono anni di insistenze, nonché di pressioni diplomatiche occidentali, perché il progetto del “complesso di chiese inter-denominazionale” ricevesse finalmente l’ok del regime, con l’assegnazione di un terreno donato dall’emiro stesso.

L’inaugurazione di Nostra Signora del Rosario, il 15 marzo 2008, è ricordata da tutti come un evento straordinario: alla cerimonia parteciparono decine di sacerdoti e vescovi, esponenti diplomatici, rappresentanti del governo. E, soprattutto, migliaia di fedeli (la chiesa può ospitarne tremila): solo una piccola parte, in realtà, dei 140 mila cattolici che vivono a Doha, provenienti da 70 Paesi diversi.

Per i cristiani, la vita in Qatar continua a non essere facile. L’approccio modernizzatore dell’emiro al-Thani non è il più diffuso in questo Paese dove la corrente islamica maggioritaria è quella radicale wahabbita, come nella vicina Arabia Saudita. Fin da subito, l’apertura della chiesa ha sollevato polemiche infuocate, e ben presto sono incominciati gli attacchi.

«Periodicamente riceviamo avvertimenti da parte di gruppi fondamentalisti che ci minacciano di morte», racconta il parroco di Nostra Signora del Rosario, padre Peter Mathews. Fuori dal compound staziona costantemente una camionetta della polizia, che controlla tutti i movimenti sospetti: persino una macchina fotografica desta allarme e gli agenti ne vietano l’utilizzo. Il clima è da «libertà vigilata», anche per i cittadini locali, ai quali non è permesso attraversare il cancello del complesso.

«Se abbiamo paura? Non direi: qui siamo protetti. Certo, quando usciamo evitiamo di indossare l’abito religioso…». A raccontare l’ordinaria difficoltà della vita qui è padre Jose Thachukunnel, responsabile della comunità siro-malabarese, un rito orientale diffuso in India, con una presenza importante in tutto il Golfo Persico. Dall’anno scorso anche i cosiddetti «cristiani di san Tommaso» (il rito siro-malabarese risale all’apostolo che, secondo la tradizione, arrivò in India nel 53 d. C.) hanno una nuova chiesa in cui incontrarsi: tra le immagini sulle vetrate spicca la figura di madre Teresa di Calcutta, mentre dietro all’altare campeggia la tradizionale croce di San Tommaso, la «croce nel loto». Il complesso di Mesaimeer è il segno evidente dell’unità di fatto che la Chiesa cristiana è obbligata a sperimentare in queste terre. Un’unità che riguarda le diverse confessioni (attualmente nel compound sorgono anche i luoghi di culto di anglicani, copti e due chiese ortodosse), ma anche i differenti riti cattolici, che nei vicariati di Arabia e Kuwait fanno eccezionalmente tutti capo al vescovo latino, per una precisa volontà del Papa. Particolare che rimarca l’unicità della Chiesa del Golfo, e ne fa un laboratorio tanto interessante quanto complesso. «È vero, in un certo senso siamo un laboratorio, però non definirei questa società un “modello”, perché la libertà di cui godiamo è troppo limitata», commenta padre Jose, che presiede il gruppo ecumenico del clero di Doha. «E poi, il contesto materiale di vita dei cristiani è fortemente condizionante: a frequentare regolarmente San Tommaso sono circa 5 mila persone, ma moltissime altre non riescono a venire in chiesa per le difficoltà logistiche legate alla propria condizione di migranti lavoratori, che siano a servizio nelle case, autisti di taxi o, come la maggior parte, operai nelle raffinerie di petrolio».

Essere cristiani in terra d’islam, d’altra parte, rappresenta un’opportunità ricca di sfide cruciali. Ne è convinto l’architetto Casiraghi, che, grazie alla sua professione, si trova ogni giorno a confrontarsi con colleghi autoctoni, e quindi con il loro credo. «Quando sono arrivato in Qatar la mia fede era piuttosto superficiale – racconta -, ma il rapporto quotidiano con l’islam mi ha obbligato ad approfondire la mia identità. Vivere qui ci rende automaticamente testimoni di Cristo, perché i qatarini ci osservano in quanto cristiani: noi abbiamo la responsabilità di mostrare che il cristianesimo non è identificabile con lo stile di vita che va per la maggiore in Europa».

Anche questa Chiesa in mezzo al deserto, insomma, rappresenta in realtà un’oasi. Un’oasi che cresce, nonostante tutti gli ostacoli. «Stiamo progettando un nuovo auditorium polifunzionale, visto che gli spazi per le iniziative non sono mai abbastanza – racconta ancora il parroco, padre Peter -, ma soprattutto abbiamo in cantiere un “Villaggio del Rosario”: avrà stazioni con tutti i misteri e gradualmente potrà diventare un centro di pellegrinaggio». Gli anni delle catacombe sono insomma solo un brutto ricordo? «Non voglio sminuire le difficoltà che dobbiamo ancora sopportare, ma nono¬stante tutto vedo un futuro più luminoso», afferma padre Peter. «Le nuove generazioni sono più aperte, e pian piano porteranno avanti il cambiamento».