Nel Paese travolto dal default l’80% per cento delle scuole cattoliche a ottobre rischia di non riaprire. Più di mille istituti scolastici, che al servizio delle aree più depresse del Paese sono luogo di incontro tra i ragazzi di ogni confessione. E sono il cuore del volto più bello della storia di Beirut e di quel «Paese messaggio» di cui parlò Giovanni Paolo II
Le notizie che arrivano dal Libano sono gravissime. Il Paese, che è già ufficialmente in default da mesi, potrebbe ritrovarsi con le casse vuote di qui a breve. Si dovrebbe trattare un piano di salvataggio con il Fondo Monetario internazionale, ma il governo appare almeno inoperoso. Ancora poco e non ci sarà una lira in cassa, neanche per pagare stipendi, acquisti di medicinali, la salatissima bolletta per l’approvvigionamento elettrico. La lira libanese, che dalla fine della guerra civile a pochi mesi fa è sempre stata cambiata a 1500 per un dollaro, precipita, quota 3500 era il dato di qualche settimana fa. I dollari sono introvabili, e chi ne ha non può ritirarli dalla banca.
In questi condizioni può sembrare da intellettuali distaccati dalla sofferenza delle persone in carne e ossa mettersi a parlare di un dettaglio, e cioè del fatto che a ottobre l’80% delle scuole cattoliche non sarebbe più nelle condizioni di riaprire. Guarda caso si tratta soprattutto delle scuole cattoliche medie e piccole, quelle semi gratuite, che servono le aree più depresse del Paese. Sono ben più di mille istituti scolastici. Ma se il Paese sta per scendere all’inferno perché sarebbe importante ragionare di questo?
Innanzitutto perché tutti sono coinvolti, la responsabilità o corresponsabilità di un establishment politico nel quale le grandi famiglie cristiane libanesi hanno sempre avuto un posto centrale è innegabile. La prima responsabilità è stata quella di aver condiviso un sistema spartitorio che è arrivato a prediligere la non ricostruzione di una nuova centrale elettrica dopo la guerra del 2006 preferendo l’affitto elettrico da mega navi a un costo esorbitante. Lo stesso Kuwait aveva offerto un prestito praticamente senza interessi; niente da fare. Ecco però che in pochi anni e nonostante tutti i libanesi paghino salato per la corrente, il deficit elettrico è di 40 miliardi di dollari e gli abitanti sono quattro milioni…
Questo disastro è solo la punta dell’iceberg ma spiega perché l’ondata di rabbia dello scorso anno ha unito tutti i libanesi nello slogan: «Via tutti. E tutti vuol dire tutti». Se è vero che i Barberini usarono materiale edilizio preso dal Colosseo per costruire il loro palazzo patrizio, tutti i palazzi patrizi libanesi sembrano fatti col medesimo sistema. Tanto che è in Libano che diviene perfetta la celebre frase di Pasquino, quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini. Tutti i nobili libanesi, però, cioè tutte le grandi famiglie. La seconda responsabilità è umana. La maggioranza cristiana del Libano, dopo aver almeno assecondato lo sfascio economico, ha scelto l’alleanza con i filo-iraniani di Hezbollah. Scelta che personalmente ritengo esiziale, ma altri possono condividere. Ma questa scelta oggi significa alleanza con chi non può aiutare economicamente il Libano. E questo è un lusso che chi ha contribuito al suo crack non poteva permettersi. Come mettere d’accordo oggi il Fondo monetario internazionale ed Hezbollah?
Vedremo, ma nel frattempo è importante capire che cosa significhi il collasso del sistema educativo soprattutto cattolico. Va in crisi per i mancati pagamenti di contributi statali da cinque anni a questa parte; non solo quindi di questo ultimo governo frutto di una più recente alleanza tra il partito dell’attuale presidente, il maronita Aoun, ed Hezbollah. Dunque il tempo dell’unità nazionale non è immune, nessuno è escluso dal banco degli imputati. Il Libano però è un Paese che ha conosciuto altre agonie, e citare la guerra civile che lo ha devastato dal 1975 al 1990 è citare solo la più lunga. Si è ripreso allora, potrebbe riprendersi oggi, come si è ripreso dopo l’ultima terribile guerra del 2006. Perché no? L’anima libanese, pur attaccata al cuore, non morì in nessuno dei due casi. L’anima libanese è l’anima della vera cultura levantina che cure nazionaliste e islamiste hanno straziato quasi ovunque. L’anima levantina sta nel sentire tutte le diverse identità che la compongono parte costitutiva della propria identità. Questa dimensione levantina è sopravvissuta a tre lustri di guerra civile, all’assassinio di Rafiq Hariri, alla guerra del 2006, all’assedio posto da Hezbollah al palazzo del Presidente del Consiglio e con esso a tutto il centro cittadino. Potrebbe morire oggi perché chiudono le scuole private, e soprattutto quelle cattoliche? Questo è il punto e questo punto passa da Beirut.
Beirut non è una città che affonda le sue radici nella storia lontana. Era una piccola fortificazione sulla costa, assai meno importante di altre città: Haifa, Tiro, Sidone, Byblos, contavano immensamente di più. Poi quando cominciarono ad arrivare i missionari, protestanti e cattolici, Beirut si trasformò. Eravamo nell’Ottocento e Beirut aveva poche decine di migliaia di abitanti. I missionari non si insediarono nella vecchia città, ma nei suoi pressi. Poi cominciarono le operazione di collegamento delle aree di loro insediamento con il centro cittadino. Viali lunghi e larghi che scendevano verso l’odierno centro cittadino dalle due colline limitrofe. Quei viali consentirono un’edilizia nuova: basta con le vecchie case con le finestre soltanto sul patio interno e muraglioni verso l’esterno. Lungo quei viali potevano sperimentarsi i nuovi palazzi, a due o tre piani, con le finestre. La famosa finestra libanese, quella a tre archi, nacque a quel tempo e con essa lo spazio pubblico. Il porto e la grande arteria stradale che attraversando montagne impervie collegò Beirut e Damasco, affiancata poi da una ferrovia, fece di questa città una realtà tutta nuova. Beirut diveniva centro mediterraneo di commerci, i mercanti sunniti delegati a trattare con i loro correligionari di Damasco, grande raccordo delle carovaniere che attraversavano il deserto verso Oriente, e i mercanti cristiani delegati a trattare con i loro correligionari europei, che arrivavano sempre più numerosi grazie al vapore. Così un porto, una strada e una ferrovia hanno creato una città cosmopolita araba, europea, mediterranea, moderna.
La finestra libanese indicava una vita aperta, non chiusa, tribale. I lavoratori portuali portarono i sindacati e le lotte operaie. I missionari le grandi università: quella protestante, oggi American University, e quella cattolica, Saint Joseph. I famosi due versanti di Beirut, est e ovest, crescono intorno a queste maestose università, cattolica e protestante, con librerie, caffè letterari, stamperie, teatri, cinema. Il centro, lì in mezzo accanto al porto, era il luogo di connessione, della vita, dei commerci, dei suq. Dotato di un suo stile architettonico, il centro era un po’ il luogo dove tutto si univa, ogni identità entrava nell’identità collettiva necessariamente e costitutivamente cosmopolita. Davvero?
C’è un giorno alle origini della storia di Beirut che la rappresenta ed esprime questa identità urbana e questa cultura. Correva l’anno 1865: in quei tempi la popolazione aumentava vertiginosamente anche perché non erano tempi di pace, il biennio del sangue, la guerra del Monte Libano tra maroniti e drusi, aveva insanguinato e spezzato tante storie, tante famiglie. Quello scontro era arrivato a Damasco, dove una sanguinosissima rivolta aveva di fatto sfidato le riforme ottomane, quelle che ad Istanbul dovevano rinnovare l’impero e al cui centro c’era la riforma dello statuto della persona: doveva nascere il cittadino ottomano, basta protezione delle minoranze religiose in cambio di una tassa e di limitazioni severe dei diritti degli ebrei e dei cristiani. Quegli scontri confessionali, tribali, dicevano “no”. Tanti profughi che fuggivano da villaggi incendiati, case distrutte, si rifugiavano a Beirut, la città del futuro. E il 26 aprile 1865 da Beirut partì una petizione indirizzata al Sultano. Che cosa era successo? Dopo un lunghissimo lavoro di limatura del testo e raccolta di firme, centoventi imprenditori, notabili, scrittori, professori, intellettuali ed editorialisti di tutte le confessioni ci erano riusciti: tutti insieme chiedevano al Sultano di fare di Beirut la capitale della provincia costiera. Tra massacri montani, indisponibilità desertiche, risentimenti comunitari, quei centoventi autorevolissimi nomi che esprimevano tutte le comunità, tutte le fedi, tutte le confessioni cittadine si univano in una petizione che faceva di Beirut la perla della riforme.
La petizione non sfidò Damasco, anzi, ne riconobbe i meriti storici, l’importanza dei suoi dintorni e dei suoi acquartieramenti militari. Ma faceva presente che al contrario di Damasco quella città poteva crescere «soltanto attraendo più gente» e quindi disponendo dei mezzi per valorizzare la sua vera risorsa, quella umana. E infatti la crescita della città divenne tumultuosa: tra i vecchi rancori e la nuova speranza molti compivano la seconda scelta e Beirut arrivava a superare il milione di abitanti. Uno sviluppo non idilliaco e la cintura della miseria di cui per anni si è detto che cingesse (e cinga) Beirut era lo scandalo di una novità che doveva prendersi cura di sé e in particolare di trovare un posto a tavola per i “peones” del Libano, gli sciiti, che giungevano a Beirut sempre più numerosi ma senza un posto a tavola nel “grande suq” della nuova economia urbana.
Ma l’economia da sola non dà conto del successo di Beirut, nuova indiscussa attrazione per tutte le comunità che altrove restavano in urto. Accanto all’economia c’è la vita culturale, sindacale, i quotidiani che da allora hanno invaso la città. E le scuole. Scuole cristiane innanzitutto. Sono ovunque nella città, ma il loro “locus” non sono i quartieri della nuova borghesia, ricca e di successo. Ma il quartiere popolare di Zuqaq al Blat, dove si installarono prima Butros al Bustani e poi lo sceicco egiziano Muhammad ’Abduh. L’obiettivo di Butros al Bustani non era la scuola confessionale, lui avvertiva l’urgenza di formare dei veri cittadini, non soltanto tra le grandi famiglie, ma anche nei quartieri dove tanti erano giunti carichi di speranze ma anche di miseria. Bustani si impegnò in questa impresa scolastica non per diffondere narrative confessionali, ma per formare il cittadino di domani in una Scuola nazionale. In pochissimo tempo riuscì a portare 116 tra maroniti, drusi e sunniti nella sua scuola. I loro genitori venivano con ogni probabilità da ambienti di scontri confessionali, ma scelsero di mandare da lui i loro figli. Butros al Bustani, la cui scelta era stata contestata dai missionari protestanti, ricevette le loro scuse, messe per iscritto dal più famoso di loro, l’europeo Cornelius Van Dyck.
Lo ritroveremo Cornelius Van Dyck, ma dobbiamo fermarci ancora a Zuqaq al Blat, dove giunse in quegli anni dall’Egitto lo sceicco musulmano Muhammad ’Abduh, allontanato dall’Egitto dagli inglesi. Si installò dove si era installato al Bustani e fondò una scuola musulmana che si chiamava Alta Scuola ottomana. Particolarmente innovativa per il curriculum aperto ad arti, scienze e ragazze dei ogni età, prevedeva per gli studenti cristiani la possibilità di partecipare ogni domenica alla celebrazione eucaristica, lì, a scuola.
Sono due protagonisti, Bustani ed ’Abduh, della grande stagione della Nahda, il Risorgimento arabo, che in tanti dovettero e vollero seguire. E proprio Cornelius Van Dyck, il missionario che aveva riconosciuto i meriti di al-Bustani, realizzò il progetto più importante. Era destino che proprio lui, con l’ausilio di un dotto dell’Islam, avrebbe condotto in porto con il suo collega americano Eli Smith un progetto epocale, la traduzione in arabo della Bibbia, che plasmò l’arabo semplificato, quello che ancora oggi si usa su giornali e in televisione in tutto il mondo arabo. Questo progetto Van Dyck non lo vide concluso, morì prima. Ma sapeva quanto fosse stato importante proprio il contributo di Butros al Bustani e soprattutto del dotto musulmano, esperto di legge islamica, Yusuf al Asir. L’arabo, la lingua del Corano, è stata rinnovata così. C’è qualcosa di commovente in questa impresa quasi dimenticata e nel fatto che l’ammodernamento linguistico sia avvenuto nella città dell’ammodernamento urbano, del revival letterario di cui furono protagonisti proprio questi missionari e Yusuf asl-Asir, il fondatore del primo quotidiano pensato e diretto da un musulmano, “Il giornale dell’arte” ( Thamarat al-Funun).
Non possiamo rifare qui la storia della Nahda né quella di Beirut. Possiamo dire, però, che quando il colonialismo francese fondò il Libano, nel 1920, nacquero due Paesi. Quello pensato dal francesi, per dare ai cristiani uno Stato che li acquietasse e dividesse dai musulmani, la cui lettura della storia era legata alle mitologie della montagna e dei suoi scontri confessionali, e quello pensato dalla maggioranza degli arabi cristiani di Beirut, che vollero tutt’altro, vollero un Paese islamo-cristiano, libero dalle mitologie del gesuita Henry Lammens, che aveva costruito per conto dei francesi un discorso e un’élite inserite in quella che lui già al tempo costruiva come ideologia dello scontro di civiltà e riassunta dalla celebre frase di Charles Corm: «fratello musulmano, capisci il mio candore, io sono il vero Libano, autentico e devoto». La scelta della maggioranza dei cristiani arabi di Beirut fu l’altra, quella opposta e il patto nazionale che diede vita al Libano indipendente ne è stato il manifesto.
I missionari di Beirut, le loro università , le loro scuole, costituiscono il cuore di questo altro Libano, della costruzione della capitale della cultura levantina e della sue scuole aperte a tutti. Scuole che uniscono e costruiscono come il centro di Beirut, indiscutibile collante geografico e umano di una città che ha conservato i suoi quartieri e le sue aree confessionali, ma nel centro trovava la sua anima comune, l’Opera e i suq, l’oro e gli ortaggi, le case patrizie e gli stabili umili. Questo centro, collettore di una città promiscua, è stato attaccato furiosamente durante la guerra dalle milizie che non volevano né l’incontro con la cultura europea né l’incontro con la cultura araba. Viali e dedali non dovevano coesistere, una mappa urbana doveva sostituire l’altra: conquistare il centro avrebbe significato eliminare l’altra città. Il centro di Beirut non è morto, è rimato dopo la guerra, è finito nel gorgo del delitto Hariri e dell’assedio che dopo la sua morte lo ha svuotato di bar, caffè, ristoranti, dove ogni sera maroniti, drusi, sciiti, sunniti e tanti altri andavano a riscoprirsi, in fin dei conti, libanesi.
Che cosa resta dello spirito de Libano, della sua petizione alla Sublime Porta? Persi i caffè letterari, persi i teatri, persi i sindacati, che cosa c’è? Ci sono le scuole, frequentate da chiunque nel Medio Oriente voglia avere un futuro meno povero di umanità. Sconfitti nei numeri, e dalla presunzione, i cristiani hanno avuto nelle scuole la vera primazia libanese. Non nella presidenza della Repubblica, alla quale i maroniti si sono aggrappati per sentirsi i padroni del Libano, non nella guida dell’esercito alla quale hanno votato se stessi per sentirsi “sicuri”. Sono le scuole che hanno preservato il loro ruolo fondante. La guerra civile ha dimostrato la forza degli identitarismi che avversano Beirut, che la vogliono divorare. Ma mentre tutto il Medio Oriente arabo sprofondava nelle opposte illiberalità nazionalista e wahhabita, Beirut è rimasta la città aperta per ogni intellettuale perseguitato in patria proprio per la natura incoercibile del suo patto fondativo, che le scuole hanno seguitato a incarnare.
Forse i libanesi si riprenderanno da questa terribile esperienza nella quale si trovano e che ancora deve mostrare il suo esito, ma il “Libano messaggio” di cui ha parlato giustamente Giovanni Paolo II sopravviverà? Senza l’anima costituita dalle sue scuole, dalle sue università, questi territori non scivoleranno nel dissolvimento oscuro che ha già ammutolito città analoghe a Beirut come Alessandria d’Egitto, Smirne e Salonicco?