Il dopoguerra di Damasco visto dal vicino “Paese dei cedri” alle prese con la presenza di un milione e mezzo di profughi, il ruolo più forte di Hezbollah e una delicata situazione politica interna
Nel campo profughi di Tal Abbas, nel Libano settentrionale, a quattro chilometri dal confine con la Siria, non si respira nessuna aria di ritorno. Le tende bianche, agghindate con plastica, legna e cartone, restano il permanente rifugio per oltre 350 famiglie fuggite dalla Siria, tre, quattro o anche cinque anni fa. Nessuno festeggia la tanto acclamata presa di Raqqa, già capitale dello Stato Islamico. Il rientro è ancora una chimera dolorosa, nonostante il conflitto siriano abbia un vincitore zoppicante. «Fino a quando rimarranno il regime al potere e le milizie a esso collegate che controllano il territorio, non mi sentirò sicuro di tornare», esclama A.M., trent’anni, originario di un piccolo villaggio alle porte di Homs. Sul viso e sulle braccia, porta ancora i segni delle torture dei servizi segreti dell’aeronautica. L’avevano prelevato dal suo negozio di macelleria, arrestato e rinchiuso fino a quando non è riuscito a fuggire. Da quattro anni vive in un garage nel Nord del Libano, con la sua famiglia e l’anziano padre malato. «Anche se la vita qui è difficile, in Siria sarebbe impossibile. Sarei fermato a ogni posto di blocco e riportato in carcere. Il mio negozio è stato preso da una persona vicina al governo e non potrò mai più riaverlo», afferma.
Secondo le stime dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), dall’inizio della guerra in Siria, i profughi giunti in Libano sono oltre un milione e mezzo, che si aggiungono ai 500 mila palestinesi residenti stabilmente nel Paese. Vivono in campi d’insediamento informali, perché il governo libanese, non avendo mai ratificato la convenzione di Ginevra del 1951, non riconosce i siriani come rifugiati e ha adottato nei loro confronti una serie di provvedimenti che ostacolano il lavoro regolare, l’inserimento nella società e l’accesso ai servizi sanitari e scolastici. Negli ultimi tempi, inoltre, le autorità libanesi conducono raid nei campi profughi per bloccare i siriani che vivono “illegalmente” nel Paese. Una situazione che aggrava e appesantisce le già precarie condizioni dei rifugiati siriani.
«Si respira un’aria pessima nei campi profughi, l’aria di chi è sopravvissuto a una pulizia etnica e confessionale, che vede gli orizzonti restringersi sempre di più», racconta Alessandro Ciquera, torinese, volontario di Operazione Colomba, il corpo civile di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII che dal 2014 ha scelto di vivere stabilmente nel campo di Tal Abbas, accanto ai profughi siriani. «Inoltre, le strade per l’Europa sono chiuse e il Libano fa pressioni tramite la polizia per rendere la vita dei siriani difficile. I posti di blocco sono sempre più rigidi e ci sono grandi difficoltà per ottenere i permessi di soggiorno – aggiunge Ciquera -. Il ritorno? Sarà possibile solo se si creeranno delle zone umanitarie di pace, sottoposte a protezione internazionale, in cui non abbiano accesso attori armati e in cui i civili siano protetti».
Se per i cittadini siriani, rifugiati in Libano, il ritorno sembra ancora lontano, nel Paese levantino c’è chi chiede e auspica un tempestivo piano di rientro. Molte persone, infatti, temono che il flusso di cittadini siriani, prevalentemente musulmani sunniti, possa sconvolgere l’equilibrio demografico con i cristiani e gli altri gruppi confessionali.
«Non siamo contro i rifugiati. Capiamo le loro condizioni e cerchiamo di aiutarli il più possibile ma rappresentano un enorme onere e un pericolo demografico, economico, politico, culturale e di sicurezza per il nostro Paese», ha dichiarato il cardinale Bechara Boutros al-Rahi, patriarca della Chiesa cattolica maronita, a margine di un incontro tenutosi negli Stati Uniti a metà ottobre.
Non sono parole isolate. Richiamano le dichiarazioni del ministro degli Esteri del Libano, Gebran Bassil, leader del Free Patriotic Movement, partito politico fondato dall’ex generale Michel Aoun, oggi presidente libanese: «Ogni straniero che vive nel nostro Paese contro la nostra volontà è un occupante, a prescindere dalla sua provenienza».
Anche per padre Mounir Kharillah, vescovo maronita di Batroun, la situazione è diventata insopportabile. «I rifugiati siriani sono un problema per tutto il Libano, non solo per i cristiani – ci tiene a sottolineare -. È come se in Italia ci fossero trenta milioni di rifugiati, la proporzione è la stessa. Come si fa a vivere?», s’interroga il sacerdote, interpellato da Mondo e Missione.
Sulla strada che conduce da Tripoli a Tal Abbas, si scorgono migliaia di nuovi insediamenti informali, camuffati tra i campi agricoli. Spuntano accanto alle città opulente e ai villaggi. Abbondano anche scheletri di case in cemento armato, di recente costruzione, senza finestre, né porte. Per non parlare dei garage, affittati da libanesi a famiglie siriane numerose, un tempo abbienti, che non si possono più permettere la locazione di un appartamento. I quasi due milioni di rifugiati sono ovunque in Libano. Li vedi nelle costruzioni di lusso, come manodopera a basso prezzo, nei bar e ristoranti, nei campi a raccogliere la verdura di stagione o nelle scuole private libanesi che prediligono insegnanti siriani. Alcuni li considerano un fardello. Altri, un business.
«Chi ha fatto entrare i siriani in Libano ha la responsabilità di farli tornare. Dobbiamo avere il diritto di scegliere il nostro futuro – continua il vescovo Kharillah -. Cristiani e musulmani sono capaci di vivere insieme, ma le potenze regionali stanno distruggendo tutto il Medio Oriente, la cultura, la storia, la vicinanza tra i popoli e lo stanno facendo per gli interessi economici, per il petrolio, il dollaro e le armi, come ci ricorda Papa Francesco».
Il vescovo punta il dito contro Iran e Arabia Saudita, le due potenze che in Medio Oriente si contendono l’egemonia regionale e che, a fasi alterne, influenzano la stabilità interna del Libano. Dall’inizio della guerra in Siria, il “Paese dei cedri” vi è stato direttamente coinvolto a causa di Hezbollah – il gruppo estremista sciita libanese e partito politico fondato dall’Iran – intervenuto a fianco del regime di Bashar al-Assad e dei suoi alleati Teheran e Mosca. Benché fragile, il composito mosaico interno è rimasto stabile in questi anni e la guerra del vicino ha solo sfiorato il quadro politico libanese. «A Hezbollah conveniva mantenere la situazione interna tranquilla, perché non poteva giocare su più fronti. Per farlo, aveva favorito la formazione del precedente governo e di quello con Michel Aoun presidente, accettando il ritorno di Saad Hariri, come forza maggiore musulmana sunnita», spiega Saad Kiwan, giornalista libanese.
Michel Aoun e Saad Hariri sono lo specchio delle contraddizioni del panorama politico libanese oggi, come dimostrano le recenti dimissioni dello stesso Hariri. Il primo, cristiano maronita, fino alla Rivoluzione dei cedri nel 2005 è stato il simbolo di quel Libano che non voleva piegarsi alle ingerenze siriane. Poi – dopo quindici d’anni di esilio, costretto a suo tempo proprio dalla Siria – Aoun torna in Libano dove fonda il Free Patriotic Movement. Nel 2008 la visita Damasco, dove incontra Bashar al-Assad e insieme a Hezbollah stringe un accordo di amicizia politica, per ridurre le ingerenze saudite nel Paese, entrando a far parte del “Movimento 8 marzo”, a favore del regime siriano.
Saad Hariri è invece il figlio del miliardario Rafik Hariri, politico ucciso con un’autobomba a Beirut il 14 febbraio 2005. Attentato attribuito in modo non ufficiale a Hezbollah e al governo di Bashar al-Assad, ai quali Hariri ha giurato vendetta. Capo della coalizione politica sunnita Al Mustaqbal (Movimento Futuro), Saad fa parte del “Movimento 14 marzo”, la formazione anti siriana, sostenuta politicamente dall’Arabia Saudita. La nomina di Hariri a primo ministro era giunta dopo che il suo partito aveva sostenuto l’elezione del presidente Michel Aoun. Ma proprio ai primi di novembre – con la resa dei conti che in tutto il Medio Oriente sta accompagnando la fine dell’Isis – Hariri ha annunciato le sue dimissioni, che rischiano di gettare il Libano nuovamente nel caos il Paese. «Teheran e Hezbollah usano Aoun a livello interno, così come Hariri è una pedina di Riad. È un gioco d’interessi a livello regionale», continua a spiegare Kiwan.
Ma i cristiani sono davvero in pericolo? «È solo propaganda – si infervora il caporedattore del giornale on line El-Nashra -. Anche la Russia ha voluto sfruttare questo fenomeno per promuoversi come protettrice, ma è un gioco e la decisione di Aoun di schierarsi con quest’asse è una scelta politica. I cristiani in Libano, non hanno bisogno di nessuno, né di Bashar, né di Hezbollah, né di Putin. Solo lo Stato e le istituzioni possono garantire la loro sicurezza».
Nel cuore di Ashrafyyeh, quartiere cristiano per eccellenza di Beirut, la vita frenetica della classe media libanese continua senza sosta: file di auto di grossa cilindrata, ristoranti dispendiosi e grattacieli fuori misura incarnano lo status quo dei libanesi arricchiti, senza alcuna distinzione di fede o appartenenza settaria. Al contrario, lo Stato e le sue istituzioni appaiono in una fase di sospensione e coma vegetativo a causa del sistema istituzionalizzato del comunitarismo politico.
Dall’università Saint Joseph, storica istituzione dei gesuiti in Libano, Antoine Courban, professore e giornalista, spiega qual è la vera minaccia: «Il Libano è sospeso e quasi tutto oggi è sotto l’egemonia di Hezbollah – racconta a Mondo e Missione -. I cristiani ormai sono minoranza ma non possiamo pensare di obbligare i siriani a ritornare da Bashar al-Assad. La vera sfida è come proteggere e far sopravvivere il Grande Libano del 1920, il Libano del “vivere insieme”, non il Libano di oggi utile alla Siria. E per affrontare questo problema demografico, l’unica soluzione è uno Stato laico. Solo così la pace interna sarà assicurata».