Si sente ancora esule del villaggio da cui dovette scappare a causa della guerra nel 1948. Ma da anni educa arabi ed ebrei alla riconciliazione. La testimonianza del vescovo Elias Chacour
Nella sua autobiografia racconta che da bambino si arrampicava sugli alberi della Galilea, pensando che doveva averlo fatto anche Gesù lì vicino. Erano gli anni di Bir’am, il villaggio arabo cristiano che fu costretto ad abbandonare con la sua famiglia nel 1948, durante la prima guerra arabo-israeliana. Villaggio perduto, una ferita mai rimarginata per Elias . Eppure proprio da quelle radici quest’uomo, divenuto sacerdote melchita e poi vescovo, ha trovato la forza per diventare un grande testimone di pace e riconciliazione in Terra Santa. Grazie alle Mar Elias Educational Institutions, il complesso scolastico da lui fondato nel 1982 a Ibillin, un villaggio della Galilea poco lontano da Haifa. Un posto dove a studiare insieme – dalla scuola materna fino al College – oggi sono migliaia di studenti provenienti da famiglie cristiane, musulmane, ebree e druse.
Padre Elias Chacour – vescovo melchita emerito della Galilea e tuttora anima delle scuole del Mar Elias, più volte candidato al Nobel per la pace – sarà a Milano mercoledì 16 marzo, per una serata al Pime all’interno degli incontri della Quaresima 2016, incentrati quest’anno sul tema “La rivoluzione della misericordia”. Porterà la sua testimonianza su che cosa significhi oggi vivere la misericordia – il tema al centro del Giubileo voluto da Papa Francesco – come alternativa concreta e capace di costruire futuro anche in un contesto come quello di Israele e della Palestina. Ed è proprio da qui che vogliamo partire in questo dialogo.
Abouna Chacour, che cosa vuol dire educare alla pace in una Terra Santa sprofondata di nuovo nell’incubo di un’intifada?
«C’è una domanda di fondo preliminare: possiamo continuare a vivere accettando questo tipo di situazione oppure vogliamo andare alle radici e sradicare le cause? Perché questo conflitto ha radici molto profonde. Quella di oggi non è un’intifada dichiarata, ma una catena di violenze messe in atto autonomamente da singoli. Alla fine – però – la radice resta sempre la stessa: non si vuole affrontare la questione dell’occupazione, i diritti di israeliani e palestinesi in questa terra».
Che fare, allora, per promuovere la pace?
«Le nostre scuole educano all’importanza della non violenza e al perdono. Sappiamo che è un piccolo contributo: non pretendiamo di dettare soluzioni politiche. Ed è illusorio aspettarsi che questa crisi possa trovare soluzione in tempi rapidi; però esistono lo stesso modalità per gestire i conflitti. Nel nostro caso significa elaborare programmi integrati che vedano in tante sedi ebrei e palestinesi vivere insieme e provare a risolvere i problemi insieme. È l’unica strada per preparare un futuro. Nelle scuole del Mar Elias oggi abbiamo oltre 3.400 studenti: insieme a tanti diplomati che vivono in tutto il Paese, sono i migliori ambasciatori di quest’idea».
Oggi, però, anche i protagonisti delle violenze a Gerusalemme sono giovanissimi. Ragazzini di quattordici o sedici anni con un coltello in mano.
«Non è strano che siano coinvolti proprio loro. Perché l’educazione non passa solo attraverso la famiglia o la scuola: c’è anche quella della strada o quella dei media. Questi ragazzi vivono connessi con il mondo. E sui loro iPhone cercano la stessa libertà dei loro coetanei ebrei, americani o europei. A causa delle ingiustizie create da questo conflitto, però, la vita non promette loro nulla di tutto questo. Così mandano al diavolo tutto e tutti, andando a uccidere se stessi prima ancora che gli altri. Ecco perché l’educazione oggi è l’unica risposta possibile in Terra Santa. Abbiamo bisogno di ridare speranza al cuore di questi giovani. È quanto chiedo sempre agli studenti del Mar Elias: diffondete speranza. Mostrate che la vostra vita è degna di essere vissuta, che la relazione con l’altro sarà anche una fatica ma vale la pena di essere affrontata».
E che ruolo gioca la religione in tutto questo?
«Le scuole del Mar Elias nascono da un’ispirazione cristiana, ma la religione qui non è una materia di studio specifica. Avendo ragazzi di provenienze diverse sarebbe troppo costoso. L’influenza religiosa, però, si vede lo stesso. Nella famiglia, anzitutto. Ma poi anche nella testimonianza di quei cristiani che vivono credendo davvero nel perdono e chiedono a tutti di imparare ad amare i propri nemici. Alla fine è questo il messaggio più importante. Vivere insieme si può, lo vediamo anche qui in Israele: tra semplici cittadini, persona con persona, gruppo con gruppo. Anche quando il conflitto arriva a toccare drammaticamente molto da vicino qualcuno di noi, c’è molta più sensibilità di quanto si pensi: la gente è toccata, siamo vicini gli uni agli altri».
Si sentono sempre più spesso voci che dicono che in Terra Santa la prospettiva dei due Stati – Israele e Palestina – ormai sarebbe irrealizzabile: l’unica prospettiva possibile sarebbe uno stato binazionale, in cui israeliani e palestinesi dovrebbero vivere insieme. Lei che ne pensa?
«Non sono un politico, sono un prete. Ho già difficoltà a risolvere tanti problemi interni alla Chiesa, lascio ai politici questo tipo di discussioni… Concretamente, però: la soluzione dei due Stati sarebbe stata quella ideale, ma gli ideali non sono sempre realizzabili. Oggi tanti parlano ancora di questi due Stati, ma ci si chiede se ci sia ancora posto per il secondo Stato, dal momento che la politica dei governi di Israele ha fatto crescere i propri insediamenti su tutto il territorio palestinese. L’alternativa binazionale potrebbe essere una buona soluzione; il fatto, però, è che non è ancora realmente sul tavolo. Per accettarla Israele dovrebbe riconoscere l’esistenza di due nazionalità e abbandonare un’ideologia che non intende rinunciare a nessuna delle proprie conquiste. Stato binazionale significherebbe libere elezioni, annettere la Cisgiordania e Gaza, ritrovarsi con i palestinesi che diventano il 48% della popolazione, con la prospettiva di essere presto ancora di più. A quel punto, con libere elezioni, che cosa rimarrebbe del sionismo? L’importante, comunque, è non andare avanti con discussioni solo accademiche, lasciando nel frattempo libero il governo di Israele di continuare a costruire insediamenti che rendono ogni giorno più difficile la pace».
Lei da bambino ha vissuto l’esperienza dell’abbandono del proprio villaggio a causa della guerra del 1948. Che effetto le fa – oggi – vedere così tanti profughi costretti a fuggire dal Medio Oriente?
«Mi sento loro vicino, mi rivedo nei loro volti. Nonostante siano passati tanti anni, avverto il trauma, le difficoltà che ho sperimentato quando ci hanno cacciati dal villaggio. Mi sento tuttora un rifugiato nel mio Paese: vorrei poter andare a casa mia, nel villaggio di Bir’am. Penso che tutti i rifugiati, anche quelli arrivati in Europa, mantengano nel cuore il desiderio di tornare a casa, nella loro terra, e vivere in pace. Non sono immigrati per amore del mondo occidentale: sono stati costretti a fuggire per salvare la vita».
Lei si è battuto perché a Bir’am – villaggio cristiano distrutto in quella guerra – poteste almeno ricostruire la chiesa. Perché?
«Tornare a Bir’am è stata la missione della mia vita. Lascerei tutto per poter vivere lì, ricostruire la casa di mio padre e fare in modo che il villaggio possa rinascere di nuovo. Invece è un posto distrutto: le autorità israeliane lo hanno dichiarato Parco nazionale per impedirci di tornare ad abitarlo. Così, di tanto in tanto, ci raduniamo là per delle celebrazioni e dei picnic. E quando nelle famiglie originarie del villaggio muore qualcuno – ad Haifa, a Nazareth, ma magari anche in America – lo seppelliamo comunque nel cimitero dei nostri antenati. Un cimitero vandalizzato tante volte da gruppi di estremisti ebrei. Devastazioni con tombe profanate, che fanno sempre molto male. L’ultima volta è successo qualche mese fa: anche la tomba di mio padre è stata profanata. Diciamo alle autorità israeliane: la vostra gente distrugge, ma noi ricostruiremo; e quando avranno distrutto di nuovo ricostruiremo ancora».
Lei è vescovo di una di quelle Chiese d’Oriente che oggi – in Siria e in Iraq – vivono una prova durissima. Come guarda a queste sofferenze?
«È un problema grande, ma non è nuovo. In Medio Oriente i discepoli di Cristo sono quasi sempre stati perseguitati e oppressi. Ci siamo trovati spesso a dover scegliere se rimanere fedeli a Cristo o abbandonarlo. Molti miei antenati per questo sono stati uccisi. Io non so quale sarà il futuro dei cristiani o quello del Medio Oriente nel suo insieme. In Siria, per esempio, vediamo tanti cristiani costretti a fuggire, e insieme a loro anche tanti musulmani. Lo stesso in Iraq: le chiese sono state quasi completamente distrutte, ma anche molti altri pezzi della società. Quello che so, però, è che alla fine ne usciremo vincitori. E non perché saranno tanti o pochi i cristiani rimasti, ma perché continueremo a testimoniare il Vangelo. È sempre stato così qui: i primi missionari furono gli stessi ebrei e gentili dispersi con la distruzione del Tempio a Gerusalemme. A Damasco, in Giordania, a Pella sono diventati missionari fino ad evangelizzare anche l’Europa. Non ho paura per il cristianesimo. Ho paura per quei cristiani che si sentono troppo deboli per resistere nella fede».
E come vede il futuro del Mar Elias?
«Il futuro dei nostri ragazzi non è così male. Chi esce dal Mar Elias trova lavoro e molti – una volta laureati – diventano leader nelle proprie comunità. Non mi preoccupo di che cosa diventerà questa struttura tra due o trecento anni: mi interessa che cosa può fare adesso. Come i suoi programmi tra studenti arabi ed ebrei possono aiutare, come far crescere i contatti tra le nostre scuole e le scuole ebraiche, che cosa possiamo fare nel contesto internazionale. Ora. Il resto non importa». MM