L’omelia del patriarca latino di Gerusalemme nella veglia di Pentecoste presieduta nella chiesa più vicina a Sheikh Jarrah, a poche ore da un cessate il fuoco che non ha spento gli odi di questi drammatici giorni: «Non bastano gli incontri interreligiosi: impegniamoci perché nelle nostre scuole, nelle nostre istituzioni, nei media, nella politica, nei luoghi di culto risuonino il nome di Dio, di fratello e di compagno di vita»
Da dove si ricomincia dopo 11 giorni di violenze che hanno seminato morte e distruzione in Terra Santa? “Anche se può essere impopolare parlarne in questi giorni, non dobbiamo coltivare né permettere che si sviluppino sentimenti di odio. Dobbiamo far si che nessuno, sia ebreo che palestinese, si senta rifiutato. Dovremo essere più chiari nella denuncia di ciò che divide”. E’ il messaggio che il patriarca latino di Gerusalemme, mons. Pierbattista Pizzaballa, ha consegnato questa sera ai fedeli della Chiesa madre e a tutti quelli che hanno a cuore la Città Santa, nell’omelia della veglia per invocare la pace alla vigilia della Pentecoste che ha presieduto a poche ore dall’entrata in vigore di un cessate il fuoco atteso ma che non cancella i gravi problemi che queste giornate hanno mostrato di nuovo in tutta la loro drammaticità.
Riparte, dunque, dalla preghiera la Chiesa della Terra Santa. Ma lo fa in un luogo che parla già da solo: la veglia si è tenuta nella chiesa di Santo Stefano, la chiesa dei domenicani a Gerusalemme, che si trova fuori dalla Porta di Damasco a pochi passi da Sheikh Jarrah, il quartiere dove sono cominciate le violenze sfociate in questa nuova guerra che – come sempre – ha trascinato nel suo girone infernale anche Gaza. Proprio da qui il patriarca latino ha voluto lanciare il suo messaggio.
“Ci uniamo, innanzitutto, nella preghiera per le famiglie di quanti sono stati uccisi in questi ultimi giorni – ha esordito mons. Pizzaballa nella sua omelia commentando il grave lascito della guerra -, per quanti hanno perso casa, sono rimasti soli e senza alcun riferimento per la loro vita. Preghiamo per la nostra piccola comunità cristiana di Gaza, frastornata da quest’ennesima ondata di guerra, ma anche per tutti i suoi abitanti, da tanti anni umiliati, privati di libertà, di dignità e dei diritti basilari. La cessazione attuale delle ostilità ha portato forse un po’ di serenità nelle nostre famiglie, ma non ha certo risolto i problemi all’origine di questa violenza”.
Ma è Pentecoste e in questa Gerusalemme lacerata leggere il racconto degli Atti degli Apostoli non può non assumere un significato particolare. “Quel brano parla innanzitutto di noi, Chiesa di Gerusalemme – annota il patriarca -. Siamo noi per primi, qui a Gerusalemme, ciascuno con la sua cultura, lingua e carisma, ad essere ancora oggi convocati dallo Spirito del Risorto per testimoniare insieme il dono dell’unità e della pace, soprattutto in questo nostro contesto lacerato da odi e divisioni religiose e politiche. È forse proprio questa la prima missione e la vocazione propria della Chiesa Madre: essere qui testimone di unità e pace”.
Oggi, però, c’è un significato che va anche oltre la comunità ecclesiale, quel brano – spiega Pizzaballa – parla dell’identità della Città Santa, del suo raccogliere in sé tutte le anime del mondo, “un mosaico colorato e unico di vita, dove tutti si incontrano e si scontrano, ma dove ciascuno – anche suo malgrado – è parte di un grande disegno, di un tessuto ricamato da Dio stesso. È un tessuto delicato e fragilissimo – aggiunge il patriarca -, che deve essere preservato con cura e attenzione. Per questo è compito dei responsabili, religiosi e politici, custodire con estrema cautela questo patrimonio unico. Ogni appropriazione, ogni divisione, ogni gesto di esclusione e di rifiuto dell’altro, ogni forma di violenza è una ferita profonda per la vita della città e causa dolore a tutti, perché tutti siamo parte di un unico corpo”.
Ed ecco allora la rilettura amara della cronaca di queste ultime settimane a Sheikh Jarrah: “Non è casuale che quest’ultima ondata di violenza in tutta la Terra Santa sia scaturita proprio da qui, da Gerusalemme, per quanto è avvenuto a pochi metri da noi – ricorda mons. Pizzaballa -. Nessuna imposizione potrà mai essere efficace a Gerusalemme. Lo abbiamo ribadito spesso e lo facciamo ancora oggi: già molte volte l’equilibrio tra le due parti della città è stato infranto, causando dolore e frustrazione. Non è questa la strada da percorrere, se davvero vogliamo la pace. Gerusalemme è di tutti, cristiani, ebrei e musulmani, israeliani e palestinesi. Tutti con uguali diritti e dignità, tutti ugualmente cittadini. Ogni esclusione o imposizione ferisce l’identità della città e non può essere taciuta né ignorata”.
“In questi ultimi giorni – aggiunge il patriarca – abbiamo assistito a forti tensioni anche all’interno delle nostre città, dove israeliani ebrei e palestinesi vivono insieme. È un segnale preoccupante, che indica un disagio profondo al quale tutti dobbiamo prestare maggiore attenzione. A quanto pare la strada perché lupi, agnelli, leoncelli e vitelli vivano insieme è ancora lunga. Abbiamo bisogno che lo Spirito scenda su tutti, affinché tutti si riconoscano parte di un unico corpo, scompaia ogni forma di discriminazione, e perché si prendano decisioni eque per gli umili della terra”.
Di qui l’appello: “Lo Spirito apra i nostri occhi affinché si riconosca davvero, nelle legislazioni, nei nostri atteggiamenti e nelle scelte personali e collettive, il carattere plurireligioso, pluriculturale e pluri-identitario della nostra società. Dobbiamo condannare la violenza, anche quella troppo spesso – da un po’ di tempo a questa parte – presente nel linguaggio, e forse troppo spesso ignorata. Un linguaggio aggressivo conduce inevitabilmente alla violenza fisica. Dovremo lavorare con le tante persone, di ogni fede, che credono ancora ad un futuro insieme e si impegnano per esso. È stato bello vedere in questi giorni come, oltre alle tensioni e alle violenze settarie, ci siano state anche manifestazioni di amicizia e di fratellanza tra israeliani ebrei e palestinesi. Sono un segno confortante della presenza dello Spirito del Signore in mezzo a noi, nonostante tutto”.
“Dovremo essere più chiari nella denuncia di ciò che divide – insiste il patriarca -. Non potremo ritenerci soddisfatti di incontri interreligiosi di pace, pensando che bastino per risolvere il problema della convivenza. Ma dovremo davvero impegnarci perché nelle nostre scuole, nelle nostre istituzioni, nei media, nella politica, nei luoghi di culto risuonino il nome di Dio, di fratello e di compagno di vita”.
La Pentecoste per gli apostoli fu il passaggio dalla paura alla testimonianza; ed è quanto il patriarca chiede anche alla sua Chiesa: “Lo Spirito ci renda capaci di una lettura redenta della nostra presente realtà e faccia si che anche le nostre ferite, come quelle di Gesù, non siano fonte di frustrazione e scoraggiamento, ma uno stimolo ad andare oltre per creare occasioni di gioia, di incontro e di consolazione. Il dono dello Spirito ci faccia comprendere e illumini la nostra vocazione personale ed ecclesiale, in questo nostro contesto sociale così ferito e stanco; ci renda capaci innanzitutto di accogliere la nostra realtà senza menzogne e senza illusioni, metta sulle nostre labbra parole di consolazione, ci dia il coraggio della difesa della giustizia senza compromessi con la verità. Ci renda capaci di perdono”.