Nelle terre occupate dall’Isis salvare il patrimonio artistico delle comunità minacciate dalla violenza ha rappresentato una forma straordinaria di resistenza. E oggi è uno strumento di rinascita
Il monastero di Mar Behnam, gioiello della tradizione siriaca adagiato da 1.700 anni nella piana di Ninive, nel Nord dell’Iraq, è uno dei simboli del martirio subito dalla comunità cristiana sotto il dominio dell’autoproclamato Stato islamico. Nell’estate del 2014 i tagliagole del Califfato nero si impadronirono di questo luogo venerato, che custodiva le tombe di san Behnam e della sorella santa Sarah ed era meta di pellegrinaggio anche per tanti fedeli musulmani, e lo vandalizzarono senza ritegno per poi distruggerlo il 19 marzo 2015.
Eppure, non riuscirono a cancellarne tutti i tesori. Cinquecento manoscritti antichi che, di fronte al pericolo imminente, i frati avevano spostato dalla biblioteca, chiuso in barili di ferro e nascosto in una nicchia nei sotterranei dell’edificio, superarono indenni più di due anni di occupazione. Oggi questi testi in siriaco – la variante di aramaico parlata da Gesù -, di natura spirituale ma anche di astronomia, matematica e altre scienze, continuano a raccontare la ricchissima storia cristiana e plurale della regione.
La conservazione del patrimonio culturale di una comunità minacciata dalla violenza rappresenta una delle forme più efficaci di resistenza all’estremismo e uno strumento fondamentale per chi, a prescindere dalla propria appartenenza etnica o religiosa, voglia rivendicare un modello di società basato sulla convivenza e la pluralità.
In Iraq, il caso di Mar Behnam non è un’eccezione: il frate domenicano padre Najib Mikhael, oggi arcivescovo caldeo di Mosul, stipò la propria auto con manoscritti rari e volumi preziosi, alcuni risalenti al XVI secolo, per portarli in salvo dalla cittadina di Qaraqosh prima dell’invasione dei jihadisti, e attualmente collabora con il Centro per la digitalizzazione dei manoscritti della tradizione orientale (Omdc) di Erbil per salvaguardare e rendere disponibili alla consultazione migliaia di testi della tradizione caldea, sira, armena e nestoriana.
Al Centro lavorano anche cittadini di fede islamica, così come musulmani sono i due fratelli di Mosul che, durante gli anni bui dell’occupazione dell’Isis, rischiarono la vita nascondendo in casa propria quattro antichi volumi che avevano trovato tra le macerie di una chiesa distrutta. «Erano libri preziosi per i cristiani, ma lo erano anche per noi musulmani, perché in quei testi, che risalgono a 1.400 anni fa, c’è anche la nostra storia, quella che lo Stato islamico ha cercato in ogni modo di cancellare», hanno raccontato.
Nel mirino di chi, tra Siria e Iraq, voleva creare una “nazione” fondata sull’oscurantismo – e la cui ideologia non è purtroppo ancora morta – non c’era certo solo il patrimonio cristiano ma qualunque espressione culturale o artistica che non si rifacesse all’islam sunnita: basti pensare alla devastazione del sito archeologico di Palmyra (difeso al prezzo della vita dallo studioso siriano Khaled Al Assad) o all’accanimento sui luoghi santi sciiti e sui templi degli yazidi, marchiati come “adoratori del diavolo”.
La particolare crudeltà usata contro l’antico e pacifico popolo yazida, con molte migliaia di persone uccise e almeno cinquemila ragazze sottoposte ad abusi sistematici, rende oggi ancora più significativo il tentativo di ridare voce e dignità a questa minoranza, a cominciare proprio dalla sua cultura. Di cui la musica, in un contesto in cui la tradizione si tramanda ancora soprattutto oralmente, rappresenta uno degli elementi più importanti, pilastro della vita comunitaria e cuore pulsante della fede. Un antichissimo credo monoteista, che gli yazidi fanno risalire alla creazione stessa di Adamo e che fu strutturato novecento anni fa dal santo sufi Sheykh Adi bin Musafir.
Quando gli uomini di Al Baghdadi si avventarono sui villaggi del monte Sinjar per massacrare il piccolo popolo devoto all’angelo pavone, messaggero di Dio – in un’azione che le Nazioni Unite avrebbero poi dichiarato “genocidio” – non mancarono di distruggere i tamburi sacri daf e i flauti šebab al suono dei quali i membri della casta sacerdotale dei qawwal da secoli recitano gli inni religiosi. E proprio da questi strumenti cerca di ripartire oggi la rinascita della comunità, grazie a un progetto della fondazione britannica Amar che punta a salvare il ricco patrimonio musicale yazida, gravemente a rischio, per tramandarlo alle nuove generazioni che si trovano esuli lontano dalla madrepatria o sopravvivono nei campi profughi della regione.
In alcuni di questi campi, dunque, i pochi qawwal superstiti, che conoscono a memoria centinaia di pezzi, stanno insegnando a gruppi di ragazzi come suonare e cantare gli inni sacri e le melodie popolari, spesso legate alle usanze agricole stagionali, tramandati dagli antenati. Oltre cento delle loro performance, nel frattempo, sono già state registrate in diverse località significative per la cultura yazida, tra cui il veneratissimo tempio di Lalish, e archiviate nelle biblioteche di Mosul e Dohuk, oltre che alla Bodleian Library di Oxford, in modo che possano essere ascoltate anche fuori dall’Iraq e conservate per il futuro.
Un progetto che ha anche un valore terapeutico per i giovani, a cui è offerta la possibilità di cancellare il pensiero delle brutalità subite, uscire dall’isolamento delle tende e ricreare un senso di comunità e solidarietà. E che ha un significato particolare per numerose ragazze sopravvissute alla schiavitù dei fondamentalisti, come Rainas Elias, oggi 19enne, che pochi mesi fa si è esibita a Londra davanti al principe Carlo insieme a un coro di yazide. «Questa esperienza mi sta aiutando molto psicologicamente – ha raccontato -. Grazie alla musica, la nostra gente non ha perso la speranza».