Siria: la Chiesa che non deve avere paura dell’islam

Siria: la Chiesa che non deve avere paura dell’islam

Padre Jihad Youssef, superiore della comunità monastica di Mar Musa in Siria, fondata dal gesuita Paolo Dall’Oglio, commenta la situazione creata dalla caduta del regime di Assad: è impossibile per i cristiani restare in Medio Oriente secondo una logica di confronto e competizione con i musulmani. Serve il coraggio di essere “piccolo gregge”

AsiaNewsNessun cristiano può rimanere in Oriente «se la sua logica è quella di confrontarsi e competere con l’islam e i musulmani» o ancor peggio, di «opporsi a loro», perché in questo caso «il destino è di andarsene prima o poi, ed è […] un suicidio». È quanto racconta in una lunga riflessione padre Jihad Youssef, siro maronita, dal 1999 appartenente alla comunità monastica di al Khalil, nel monastero di Mar Musa di Nebek (Siria), fondata da padre Paolo Dall’Oglio. Per il religioso, in Medio Oriente può sopravvivere «una Chiesa che ama l’islam, una Chiesa che è per l’islam e non contro di esso, una Chiesa che non ha paura di essere un piccolo gregge, che non ha paura di essere un perdente nel senso del sacrificio, che è essenzialmente l’atteggiamento della croce». Inoltre, aggiunge, «tutti noi dobbiamo desensibilizzare il concetto di Ahl al-Dhimmah (la gente protetta). E dobbiamo farlo – spiega – in modo da renderlo un’interazione dinamica e non solo un ‘sei sotto le nostre ali’».

Di seguito, la riflessione di padre Jihad Youssef su Chiesa e islam nel futuro della Siria.

Per contribuire al cambiamento radicale che sta per avvenire, dobbiamo avere una visione unitaria come Chiesa interconfessionale e una forte posizione comune basata su un progetto coraggioso e realistico da proporre ai responsabili. Non dobbiamo aspettare che le cose cambino senza avere nulla da offrire, e poi dovremo accontentarci di ciò che ci viene offerto. Non abbiamo nulla da perdere: in tutta la Siria ci sono appena 250 mila cristiani, di tutte le confessioni. Non ci resta molto tempo, quindi dobbiamo pregare e ascoltare lo Spirito Santo per avere ispirazione e guida.

La cosa più importante è che dobbiamo cambiare radicalmente la nostra mentalità riguardo al rapporto con le autorità e uscire dalla logica dei mullah, che abbiamo ereditato dagli Ottomani e che è stata perpetuata dal regime fino ad oggi. Dobbiamo liberarci di questa immagine e offrire ciò che riteniamo opportuno per vivere in pace e gioia con il compagno musulmano, secondo le nostre dimensioni e nulla più. Siamo una minoranza, sì, e dovremmo esserne orgogliosi. La Bibbia non ci descrive forse come lievito nella pasta e sale? Non ci definisce forse un piccolo gregge? Da questo punto di vista, dovremmo prendere l’iniziativa nei confronti dei musulmani, chiedendo loro se ci vogliono o meno in questo Paese. La risposta la conosciamo tutti: “Sì”. Ma questo “sì” tradizionale non è sufficiente. Se volete vivere con noi, o meglio volete che restiamo in questo Paese con voi, dovete ascoltare ciò che diciamo e accettare ciò che siamo, chi siamo e cosa possiamo fare insieme. Se non lo fate, affretterete la nostra partenza.

Il rapporto prevalente tra Chiesa e autorità in Siria è malsano e poco evangelico. Dobbiamo trasformarlo e rinnovarlo in una forma di interazione costruttiva e non di mera sottomissione finalizzata a guadagni e privilegi, spesso solo in apparenza, e a volte, ma non raramente, guadagni per una comunità a scapito di un’altra. Il cambiamento avviene modificando il nostro atteggiamento verso l’altro musulmano, la nostra percezione di esso e, soprattutto, le nostre aspettative nei suoi confronti. Dobbiamo avere una visione che non sia né esclusiva né condiscendente, una visione che dia spazio all’altro nella nostra vita.

Nessun cristiano può rimanere in Oriente se la sua logica è quella di confrontarsi e competere con l’islam e i musulmani. O di opporsi a loro. O, se i suoi sentimenti sono di odio verso di loro, di rimanere nonostante (con qualche sostegno dall’interno o dall’esterno). O anche, semplicemente, di rimanere nel loro quartiere. Il destino di un cristiano di questo tipo è di andarsene prima o poi, ed è un vero e proprio suicidio. La Chiesa che può sopravvivere è una Chiesa che ama l’islam, una Chiesa che è per l’islam e non contro di esso, una Chiesa che non ha paura di essere un piccolo gregge, che non ha paura di essere un perdente nel senso del sacrificio, che è essenzialmente l’atteggiamento della croce di cui siamo tutti orgogliosi. Questo da un lato.

Dall’altro, tutti noi dobbiamo desensibilizzare il concetto di Ahl al-Dhimmah (la gente protetta). E dobbiamo farlo in modo da renderlo un’interazione dinamica e non solo un “sei sotto le nostre ali”. La storia ci insegna qualcosa di importante: l’atteggiamento tradizionale dei musulmani nei confronti dei cristiani d’Oriente ha oscillato tra la chiusura e la persecuzione crudele e umiliante e l’apertura moderata o addirittura accogliente, a volte per un breve periodo, ma sempre all’interno del concetto di Ahl al-Dhimmah. Secondo le leggi siriane in vigore fino ad oggi (prima della libertà), i cristiani sono cittadini di seconda classe in aree fondamentali. Questa è la realtà.

Tuttavia, come cristiani, non dobbiamo combattere una battaglia persa contro i musulmani o contro leggi “razziste” che sono ingiuste nei nostri confronti. Dobbiamo invece chiedere a Dio: “Cosa vuole da me personalmente e da noi come corpo chiamato Chiesa, anche se è un corpo sparso e disperso?”. Dobbiamo renderci conto che i cristiani hanno una missione e che essi stessi sono una missione. Qual è la nostra missione oggi in Siria? Qual è il significato della nostra presenza su questa terra oggi? È la visione di coloro che ricevono la vita nel Levante come un dono e una missione di Dio, cioè vivere come un “piccolo resto” con la chiamata evangelica a vivere come lievito nella pasta. Questo non significa sottomissione, ma azione; vi è qualcosa che il lievito fa e che il sale fa, che nulla può fare al loro posto.

Quello che penso dobbiamo offrire come progetto coraggioso e umile di convivenza con i musulmani è trasformare il concetto di Ahl al-Dhimmah in un segno di particolarità, più che di inferiorità. In altre parole diventiamo, in un certo senso, coloro di cui ci si prende cura a causa del loro ruolo, della loro piccolezza e persino della loro fragilità. Un concetto basato sull’idea che siamo uguali, non di seconda classe; che siamo uguali, ma che conosciamo la nostra dimensione e i nostri limiti. Dopo tutto, siamo pochi e non siamo in grado di preservarci e scompariremo se voi, i musulmani, non ci sosterrete. Dobbiamo riconoscere che senza la collaborazione con i musulmani ci dissolveremo e moriremo. Dobbiamo quindi dire loro: «Se ci volete davvero, fate qualcosa. Non siamo una minaccia per voi e non possiamo togliervi nulla; al contrario, possiamo solo arricchirvi e lavorare per voi, in modo che la nostra prosperità derivi dalla vostra prosperità».

Il nostro progetto è un partenariato basato sull’uguaglianza dei cittadini, sull’incontro e sulla condivisione. Nessuno deve rimanere fuori dal cerchio della partecipazione. Nessuno è nemico dell’altro e nessuno ha paura dell’altro o di essere derubato dall’altro. La fede in un unico Dio, la moralità, la coscienza e l’umanità ci aiutano a partecipare e a costruire un Paese dignitoso e sano per tutti. Nessuno si sente oppresso o odiato, spaventato o minacciato. Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo costruire un concetto “civile” di cittadinanza che non sia contro la religione e la religiosità, ma si basi sulla fede, rispetti la religione e garantisca le minoranze religiose, etniche e linguistiche, e così via. È con umiltà e coraggio che proponiamo questo tipo di collaborazione.