Nessun passo in avanti diplomatico per la guerra più dimenticata dai nostri media, mentre le vendite di armi non si fermano. Anche di questo parlerà il vescovo d’Arabia Paul Hinder sabato 15 settembre al Pime di Milano
Non c’è pace per lo Yemen. I negoziati convocati nei giorni scorsi a Ginevra tra il governo e i ribelli Houthi, duranti i quali l’Onu si era posto come mediatore tra le parti in conflitto, hanno registrato l’ennesimo fallimento nella ricerca di una tregua per il martoriato Paese, in cui la situazione umanitaria non fa che peggiorare. Secondo i rapporti della Nazioni Unite, agosto è stato il mese più sanguinoso dall’inizio dell’anno, con quasi mille persone – tra cui almeno 300 bambini – rimaste vittime dei combattimenti e dei bombardamenti aerei della coalizione a guida saudita, che sostiene il governo di Mansour Hadi.
I colloqui di pace, i primi da due anni a questa parte, avrebbero dovuto mettere faccia a faccia le forze lealiste, sostenute appunto dall’Arabia Saudita ma anche dagli Emirati Arabi Uniti, e i ribelli, di confessione sciita e vicini all’Iran. Sono invece collassati dopo che la delegazione degli Houthi ha rifiutato di presentarsi all’incontro in Svizzera per la mancata soddisfazione di alcune richieste (tra cui la garanzia di poter fare ritorno nella ex capitale yemenita Sana’a una volta conclusi i dialoghi). Una notizia di cui ben pochi media nostrani hanno dato conto, sebbene rappresenti il grave segnale di un allontanamento della possibile risoluzione della guerra yemenita, in corso ormai da tre anni ma sempre poco presente su giornali e notiziari. Forse perché l’Italia non ha soldati sul territorio, o per la lontananza di questo fronte, che rende arduo per i suoi profughi raggiungere le coste italiane.
E mentre l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Martin Griffiths, incassato il fallimento, si prepara a incontrare i rappresentanti Houthi a Muscat, in Oman, e nella stessa Sana’a, i civili continuano ad essere le prime vittime di una situazione umanitaria emergenziale, aggravata, nelle ultime settimane, dall’attacco sferrato contro la città portuale di Hodeida, controllata dai ribelli. «Una carneficina che si sta palesando come conseguenza diretta sia del disprezzo spregiudicato delle parti in conflitto nei confronti della vita dei civili, che dell’incapacità delle potenze che le appoggiano di trovare vie di uscita politiche efficaci verso la pace», come ha denunciato la ong Oxfam. E così, puntualmente, le stragi sono riprese: nelle ultime ore nella zona di Hodeida si sono contati almeno 84 morti, mentre a sud della città sul Mar Rosso non si fermano i combattimenti, concentrati al momento nella nucleo di Ad Durayhimi. Le organizzazioni umanitarie non riescono a intervenire a causa degli scontri e delle strade bloccate. I danni alle infrastrutture idriche e sanitarie stanno lasciando migliaia di persone senz’acqua e assistenza medica, con il rischio di una nuova epidemia di colera.
Le speranzi di una risoluzione della crisi yemenita restano labili, non solo per le difficoltà ad aprire una tavolo dei negoziati, ma anche – e forse soprattutto – per il coinvolgimento di molte potenze occidentali, Italia compresa, nella vendita di armi alle parti in conflitto. L’imbarazzante dietrofront della Spagna di Sanchez, che ha deciso di ripristinare il contratto da 9,2 milioni di euro, congelato soltanto due giorni fa, per la fornitura di 400 bombe di precisione all’Arabia Saudita, rappresenta solo l’ultimo capitolo di una lunga serie di defaillances della comunità internazionale.
«Troppi guadagnano da questa guerra», ha denunciato il vescovo dell’Arabia del Sud monsignor Paul Hinder, intervistato da Mondo e Missione, che ha raccontato come anche la Chiesa stia versando il suo tributo di sangue a questo tragico conflitto. Ci sono i martiri, come le quattro suore di Madre Teresa trucidate ad Aden il 4 marzo 2016 da un commando di islamisti che avevano attaccato la casa di riposo da loro gestita (brutalmente assassinati anche il personale e alcuni ospiti della casa, per un totale di 16 persone). L’ultimo sacerdote rimasto ad Aden, il salesiano indiano padre Thomas Uzhunnalil, fu rapito dallo stesso commando e rilasciato grazie a intensi sforzi diplomatici un anno e mezzo dopo. Ma ci sono anche le tante devastazioni, materiali e morali, che si abbattono quotidianamente sui fedeli del Paese.
«Anche se la missione nella penisola araba iniziò proprio in Yemen circa 180 anni fa, e la prima sede del vicariato fu Aden, oggi, dopo tre anni di guerra, la Chiesa come organizzazione è quasi inesistente», racconta Hinder, testimone d’eccezione della situazione incandescente nel Golfo Persico, che porterà il suo racconto sabato 15 settembre al Centro Pime di Milano, nel contesto delle giornate conclusive di Tuttaunaltrafesta 2018. «Restano dei fedeli in alcune parti del Paese, con cui però non ho contatti – continua il prelato, che interverrà alle 16 nell’incontro dal titolo “Io, vescovo d’Arabia” -, mentre sappiamo che a Sana’a quelli che possono permettersi di muoversi in città si riuniscono di tanto in tanto, in un piccolo numero, a pregare con le suore di Madre Teresa. Ma non ci sono più sacerdoti, né i luoghi dove si celebrava la Messa. A Taiz già da due anni non esiste più nulla, la casa dove viveva il padre, e dove sorgeva una piccola cappella, è stata distrutta. Rimane un edificio a Sana’a che al momento non possiamo usare, ma di cui continuiamo a pagare l’affitto nella speranza di conservarlo per quando la situazione migliorerà. Queste, tuttavia, sono le conseguenze della guerra, non di una persecuzione mirata contro i cristiani: un’entità che, d’altra parte, quasi non esiste pubblicamente. Certo, è possibile che un cristiano subisca qualche discriminazione nella vita quotidiana, ma a soffrire gli effetti devastanti del conflitto sono gli yemeniti nella loro totalità».