L’esperienza di Matteo Fraschini Koffi nel ghetto di Rignano è diventata anche un libro. Che denuncia le condizioni disumane in cui migliaia di persone, in gran parte migranti, sono costrette a lavorare per la raccolta dei pomodori in Puglia
Ci ha pensato per quasi due anni. È dovuto passare per l’Africa per ritornare di nuovo in Italia e decidere che ce la poteva fare. È la storia, diventata un libro, di Matteo Fraschini Koffi, nato in Togo, adottato a pochi mesi e cresciuto in Italia, tornato in Africa alla ricerca delle proprie origini, ma anche e sempre di più in veste di giornalista. Tornato, infine, nel nostro Paese si è mischiato alle migliaia di africani che ogni anno sono costrette ad accettare condizioni di vita e di lavoro disumane nei campi di raccolta di pomodoro in Puglia.
La scorsa estate, Matteo si è infiltrato nel ghetto di Rignano, una piccola Africa in miniatura. Anzi, il peggio dell’Africa e dell’Italia messi insieme, un luogo di illegalità, traffici e sfruttamento al limite della schiavitù.Lo ha raccontato in diversi reportage, che gli sono valsi il prestigioso riconoscimento giornalistico “Il Premiolino”. Ed ora questa sua esperienza è diventata anche un libro in collaborazione con il fotografo e filmaker Antonio Fortarezza: Campi d’oro rosso (Ed. Gruppo Solidarietà Africa, Seregno).
«Nasce proprio Antonio – racconta Matteo – l’idea di questo lavoro. Originario di Foggia, ma residente a Milano, Antonio tornava regolarmente in Puglia per investigare sul caporalato, soprattutto legato al ghetto di Rignano. Due anni fa, mi ha parlato di quello che faceva. Ci ho riflettuto a lungo e alla fine ho deciso di provare a fare questa esperienza».
Dopo un’altra parentesi in Africa, dove vive dal 2006, la scorsa estate Matteo ha sentito di essere pronto davvero. «Gli anni passati nel continente africano mi hanno certamente aiutato a “fiutare” la situazione del ghetto, dove si riproducono per molti versi le stesse dinamiche che avevo trovato negli slum di Nairobi piuttosto che ad Agades, in Niger, dove ci sono una cinquantina di ghetti, da cui passano migliaia di migranti in transito verso il Nordafrica».
Sbarcato in Puglia, Matteo si prende un po’ di tempo per conoscere la realtà del lavoro stagionale in diverse località della regione. Fa poi una prima “incursione” nel ghetto di Rignano: pochi minuti, accompagnato da un ex residente, giusto il tempo di rendersi conto di come è organizzato e di come funziona quel luogo, senza dare troppo nell’occhio, per non farsi riconoscere.
«Ho aspettato ancora una settimana – racconta – il tempo di farmi crescere barba e capelli. Poi sono entrato. Ero molto determinato. Ma se non avessi vissuto dieci anni in Africa non ce l’avrei fatta.
Le esperienze fatte in quel continente mi hanno reso abbastanza sicuro di quello che volevo fare».
Matteo ha passato due settimane nel ghetto di Rignano, dove nei mesi estivi si ammassano circa 1.500 persone. Una baraccopoli totalmente illegale al “servizio” del caporalato che gestisce la raccolta dei pomodori.
In Puglia – secondo produttore di pomodori in Italia, dopo la Sicilia – più del 40 per cento dei braccianti nelle aziende ispezionate è irregolare. Questo perché molti dei circa 27 mila imprenditori agricoli pugliesi si affidano al caporalato per reclutare manodopera a basso prezzo. E non si tratta solo di lavoratori subsahariani e maghrebini, ma anche di molti comunitari e italiani. Persino molte donne. Sarebbero, infatti, circa 40 mila le braccianti pugliesi vittime del caporalato. Gli uni come le altre ricevono salari bassissimi, anche perché bassissimo è il prezzo a cui le grandi società di trasformazione e distribuzione acquistano i prodotti alle aste.
«Dentro il ghetto c’è un po’ di tutto: un po’ di mafia e un po’ di droga, molta prostituzione e tanto sfruttamento. Storie spesso molto simili di giovani immigrati, che in alcuni casi si sono ritrovati in Italia loro malgrado, dopo la caduta di Gheddafi in Libia, e che ora non possono tornare indietro perché non hanno abbastanza soldi. Sono rimasto molto sorpreso dalla complessità delle dinamiche che ho trovato lì dentro e che sono lo specchio di un Paese come l’Italia, che tollera simili zone d’ombra, ma anche sono il risultato di politiche internazionali miopi e incapaci. Il ghetto è solo il sintomo di un sistema più complesso e di una filiera che arriva sino al supermercato – passando attraverso politiche nazionali e internazionali alquanto discutibili».
E aggiunge: «Inutile dire: “Chiudiamo il ghetto”. Non è il ghetto il problema. Sono gli interessi che ci stanno dentro e attorno».
A Rignano, Matteo ha incontrato anche un missionario, padre Arcangelo Maira, scalabriniano, che dopo una lunga esperienza in Africa, ha ritrovato un pezzo di quel continente nella sua terra. «Padre Arcangelo – lo ricorda Matteo – è uno che non aveva paura. E che all’interno del ghetto aveva un ruolo importante. Penso che abbia ricevuto qualche minaccia e forse anche per questo quest’anno non sarà più lì».
Padre Maira ha dato vita al Progetto “Io ci sto fra gli immigrati”, coinvolgendo circa 250 giovani volontari che operano tra gli stagionali, con i quali condividono innanzitutto il loro tempo, il loro entusiasmo, la voglia di confrontarsi alla pari e di trattarli come persone umane, non mere macchine da raccolto.
«Non tutte le organizzazioni stanno nel ghetto con questo spirito – conclude Matteo -: mi ha fatto male vedere gruppi che dovrebbero stare dalla stessa parte e lottare insieme per i diritti di chi vive e lavora lì, portare avanti i propri specifici interessi. Che non coincidono necessariamente con l’interesse dei migranti. E così – conclude amaro Matteo – ogni anno si reitera lo stesso meccanismo di ingiustizia e sfruttamento».