I popoli giunti da lontano guidati da una stella oggi in Terra Santa hanno il volto dei figli degli immigrati; bambini asiatici e africani che per la legge israeliana non dovrebbero esserci, per i palestinesi semplicemente non esistono ma sentono anche loro Gerusalemme come propria. Viaggio a Casa Rachele, dove ci si prende cura di loro
“Il libro del profeta Isaia (cap. 60) e poi quello dell’Apocalisse (cap. 21) descrivono Gerusalemme come una città con le porte sempre aperte, per lasciare entrare genti di ogni nazione, che la ammirano e la colmano di ricchezze. La pace è il sovrano che la guida e la giustizia il principio che governa la convivenza al suo interno“.
Nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace 2018 – dedicato al tema “Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace” – papa Francesco ricorda come nella Scrittura vi sia un legame particolare tra Gerusalemme e le genti. Un legame profondo che la stessa festa dell’Epifania, che la Chiesa oggi celebra, torna ogni anno ad annunciare in tutta la sua forza.
Eppure anche nella Gerusalemme degli uomini di oggi – come in tante nostre città – la sfida dell’umanità in movimento è un nervo scoperto. Proprio in questi giorni il governo Netanyahu ha confermato l’intenzione di non rinnovare il permesso di soggiorno a circa 40 mila richiedenti asilo eritrei e sudanesi entrati dal Sinai nel Paese prima che fosse costruito anche lì un muro. Vogliono che lascino Israele entro fine marzo con destinazione altri Paesi africani (da tempo si parla del Rwanda e dell’Uganda, con cui Israele avrebbe stretto accordi a d hoc, anche se i due governi lo negano).
Ma il caso dei richiedenti asilo eritrei e sudanesi è solo quello più clamoroso in un Paese dove la condizione dei migranti non ebrei è particolarmente difficile: servono al mercato del lavoro, quindi sono stati incoraggiati a entrare, ma solo come manodopera temporanea. Per badanti, giardinieri, cuochi, che vengono dalle Filippine o dall’Africa – in particolare – non è previsto il diritto di famiglia. Il risultato è che i loro figli di fatto sono apolidi: crescono in Israele, parlano ebraico, sentono questo Paese come il loro, ma restano a rischio di espulsione perché privi di tutele giuridiche.
Molti di questi piccoli sono cattolici e per loro da poco più di un anno a Gerusalemme è attiva Casa Rachele, una struttura voluta dal vicariato per i migranti del Patriarcato latino. Un posto dove per la prima volta molti di questi bambini che crescono vedendo pochissimo i propri genitori imparano che cosa sia una casa. Un posto che ha nel suo stesso nome quello di Rachele, la “madre che piange i suoi figli”, per ricordare quanto dolore ci sia dietro tante storie migranti. Ma anche un luogo che brulica di vita, annunciando una Gerusalemme ben diversa da quella sfigurata dalle retoriche legate al conflitto.
Qualche settimana fa siamo stati a Casa Rachele a Gerusalemme e abbiamo raccolto i racconti di chi la abita in un articolo pubblicato sul numero di gennaio di Mondo e Missione. Lo rilanciamo oggi qui sotto convinti che sia una lettura particolarmente adatta per spogliare l’Epifania di un esotismo vuoto e ritrovarvi invece fino in fondo l’incontro tra il Verbo e la carne delle genti di oggi.
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