Nel messaggio per la Giornata mondiale dei migranti il Papa sulla cittadinanza pone un tema che è molto più ampio rispetto allo stesso ius soli. In un mondo che oggi rischia di moltiplicare gli «invisibili»
Oltre a denotare la solita distorsione italocentrica – secondo cui ogni cosa nell’universo si muove intorno all’ultima sillaba del dibattito politico italiano – le reazioni di queste ore al passaggio sul diritto alla cittadinanza contenuto nel messaggio del Papa per la Giornata mondiale dei migranti rischiano di diventare un’occasione persa per provare a capire la portata del problema degli apolidi nel mondo delle migrazioni oggi.
È infatti a questo specifico tema che papa Francesco fa riferimento nella frase divenuta ieri nelle letture giornalistiche l’«intervento del Papa in favore dello ius soli». Automatismo che la dice lunga sulla superficialità con cui oggi l’Italia discute del fenomeno migratorio. Vale dunque la pena di leggere per intero ciò che il Papa ha scritto nel testo diffuso in vista dell’appuntamento che le Chiese di tutto il mondo celebreranno domenica 14 gennaio 2018 e provare a contestualizzarlo dentro alcune coordinate precise.
«Nel rispetto del diritto universale ad una nazionalità – spiega Bergoglio – questa va riconosciuta e opportunamente certificata a tutti i bambini e le bambine al momento della nascita. La apolidia in cui talvolta vengono a trovarsi migranti e rifugiati può essere facilmente evitata attraverso una legislazione sulla cittadinanza conforme ai principi fondamentali del diritto internazionale». E a chiarire ulteriormente il senso dell’affermazione, nel testo compare una nota che rimanda al numero 70 del documento del Pontificio Consiglio per i migranti «Accogliere Cristo nei rifugiati e nelle persone forzatamente sradicate». Testo che – parlando delle misure da adottare per combattere l’apolidia – ricorda che una «legislazione giusta deve garantire che gli individui non siano privati arbitrariamente della loro nazionalità né debbano rinunciare alla loro cittadinanza senza acquisirne un’altra e che i bambini siano registrati alla nascita e dotati di certificati adeguati».
Il punto è che il Papa sta parlando di un tema specifico che è più ampio rispetto allo stesso ius soli. Ed è precisamente la questione degli apolidi, cioè quelle persone che «nessuno Stato considera come suo cittadino per applicazione della sua legislazione», secondo la definizione della Convenzione di New York del 1954. Una condizione che le porta a essere di fatto «invisibili», perché senza il riconoscimento di una cittadinanza si rischia di essere spogliati di diritti umani fondamentali come quelli all’istruzione, al lavoro, alla proprietà, al matrimonio, alla partecipazione politica…
Nel mondo di oggi esistono gli apolidi? Sì. Le stime più attendibili parlano di 15 milioni di persone, dei quali tra i 3 e 5 milioni sarebbero minori. Gente dal profilo un po’ diverso rispetto a quello di Viktor Navorski, il protagonista impersonato da Tom Hanks nel film di Steven Spielberg The Terminal che – ritrovatosi bloccato in aeroporto con un passaporto della sua Cracozia, improvvisamente isolata dalla comunità internazionale – si muoveva in un limbo surreale tra i gate, le toilette e i carrelli dei bagagli. Come Viktor gli apolidi sono proprio il frutto di conflitti e migrazioni, e crescono soprattutto intorno a quegli esodi che si prolungano per anni il più delle volte in accampamenti informali, privi di tutele. E crescono perché nascere in una famiglia di apolidi il più delle volte significa vedersi a propria volta negato il diritto a una cittadinanza. Il che non vuol dire semplicemente non avere una bandierina da sventolare: molte volte per un minore non essere registrato da nessuna parte significa diventare molto più esposto ai traffici più turpi. Non a caso – nel messaggio del Papa – il passaggio sulla cittadinanza appare sotto il verbo “proteggere”.
Oggi le vittime più penalizzate da questo tipo di condizione sono ancora una volta i Rohingya, il gruppo etnico di fede islamica nel mirino dei buddhisti nello Stato di Rakhine in Myanmar. Il governo birmano nega infatti a questa minoranza proprio la cittadinanza; e anche quelli scappati nel vicino Bangladesh, in Malaysia o in Thailandia non se ne sono visti riconoscere un’altra. I Rohingya sono dunque centinaia di migliaia di apolidi. Così nascere Rohingya oggi significa nascere senza diritti (e proprio papa Francesco parla spesso della loro condizione).
Varrebbe però la pena di chiedersi se lo stesso scenario non sia un pericolo concreto che si va profilando con la strategia che mira ad affrontare le ondate migratorie dall’Africa fermando i flussi nei campi in Libia o ancora più a Sud. È infatti immaginabile che in quelle condizioni e senza le garanzie di uno status giuridico garantito da organismi internazionali chi nasce possa ottenere il riconoscimento di una qualsivoglia cittadinanza?
Alla lista vanno poi aggiunti quei Paesi che utilizzano la spogliazione della cittadinanza come un’arma. È quanto sta facendo, per esempio, la Turchia di Erdogan che da un anno a questa parte adotta questo tipo di misura per colpire i turchi finiti anche all’estero nelle liste di proscrizione del movimento di Fetullah Gulen. Se oggi nasce loro un figlio e vanno al consolato per registrarlo la richiesta viene respinta; con il risultato che se vivono in Paesi dove non è in vigore lo ius soli i loro bambini si ritrovano apolidi per motivi di discriminazione politica.
E l’Italia in tutto questo che c’entra? Anche nel nostro Paese le stime parlano di circa 15 mila apolidi. In buona parte si tratta di rom originari della ex Yugoslavia che – dopo le guerre nei Balcani degli anni Novanta – si sono ritrovati senza nessuna cittadinanza. E anche i loro figli, che nel frattempo sono nati, restano in un limbo giuridico che non ne facilita certo la protezione. Tra l’altro l’Italia aderisce alla Convenzione sulla riduzione dell’apolidia, ma ha modalità molto farraginose per il suo riconoscimento. Anche per questo nel 2015 in Parlamento era stato presentato un disegno di legge specifico, scritto dalla Commissione Diritti Umani del Senato insieme al Consiglio Italiano per i Rifugiati e all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati per tradurre in misure concrete quell’impegno. Ma questo progetto è ovviamente rimasto ancora più fermo di quello sullo ius soli e finirà in un cassetto a fine legislatura.
Tutto questo per dire che la questione degli apolidi non è un tocco di esotico buttato lì per un’immagine ad effetto. È una cartina di tornasole sul mondo di oggi. Nel 1954 – a pochi anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale – la comunità delle nazioni riteneva l’esistenza di persone private di una qualsiasi cittadinanza un fatto talmente grave da meritare una Convenzione internazionale che prevedesse una serie particolare di tutele. Oggi il Papa – a partire dalle antenne che la Chiesa cattolica ha dentro il fenomeno delle migrazioni – torna a dire che il problema degli apolidi resta una ferita aperta. Varrebbe la pena di rifletterci un po’ più a fondo, prima di partire lancia in resta con il primo slogan in circolazione.