Nel Centro di identificazione ed espulsione vicino a Roma, continuano ad arrivare centinaia di ragazze nigeriane. Molte vengono espulse, mentre altre rischiano di finire in strada
Joy dice di avere vent’anni, ma sembra poco più che un’adolescente. Lo stesso le altre che le si fanno intorno. Hanno i visi belli di ragazze nel pieno della vita queste giovani nigeriane, ma gli occhi smarriti e tristi, che si chinano istintivamente verso il basso. Si avvolgono in pesanti coperte anche se non fa particolarmente freddo, come per proteggersi, per difendersi. Tutt’intorno le alte sbarre di una prigione che non dovrebbe esserlo: cemento e inferriate a perdita d’occhio, un grigiore squallido che si confonde con il cielo pesante di questa periferia di Roma, persa nel nulla. Una stazione, un grande piazzale, i muri alti ricoperti di filo spinato del Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria. Joy ha un punto di domanda stampato in faccia: che ci faccio qui?
È un continuo viavai di nigeriane in questo Centro che, come molti altri, sembrava destinato alla chiusura. Poi è arrivata la nuova “emergenza-migranti”, migliaia di persone sbarcate sulle coste meridionali dell’Italia, con un numero record di nigeriani, soprattutto giovani donne: 4.300 solo nel 2015. Migranti, profughi, clandestini, vittime di tratta… A volte, è difficile distinguere. Forse sono un po’ tutto questo. Ragazze in fuga dalla miseria, incantate da false promesse e dal sogno di una vita nuova, di benessere e felicità; ma anche vittime di traffico di esseri umani, di criminali senza scrupoli, che le hanno comprate e vendute, per immetterle sul mercato della prostituzione forzata. La maggior parte dice di aver attraversato il deserto del Sahara e di essere rimasta bloccata per qualche tempo in Libia. Qui gli occhi si abbassano di nuovo, le parole sfumano nel silenzio. Significa una cosa sola: che sono state usate, abusate, costrette a vendere il proprio corpo per pagarsi il resto del viaggio. Ovvero un altro incubo: l’attraversata del Mediterraneo. Ce l’hanno fatta. Il resto è solo da dimenticare.
Molte arrivano incinte e finiscono in altri meandri del complesso e a volte indecifrabile programma italiano di protezione dei profughi e dei richiedenti asilo. Molte altre vengono sbattute nei Cie. Non si capisce bene con che criteri. Quasi tutte sono senza documenti. E quasi tutte sono accomunate dalla stessa storia di soprusi e violenze. Vittime o “clandestine”? Dipende da come le si guarda. Da chi le guarda.
L’arbitrio, a volte, è l’unica regola. Loro stesse si trascinano sul filo di questa ambiguità. I loro racconti zoppicanti sono in bilico tra vero e falso. La loro storia vissuta si mischia con quella che i trafficanti dicono loro di raccontare. Nulla è bianco o nero. E in queste vaste zone d’ombra si muovono con grande flessibilità e capacità organizzativa coloro che speculano sulla loro pelle e che le hanno portate sin qui per metterle su una strada, pretendendo la restituzione di un debito che si aggira attorno ai 60-80 mila euro.
Di quelle passate dal Cie, un buon numero è stato rimpatriato, senza probabilmente che venissero fatte, in maniera accurata, tutte le necessarie verifiche circa la loro condizione di vittime di tratta. Già il Rapporto 2015 sul traffico di esseri umani del Dipartimento di Stato americano (Tip Report) denunciava questa “anomalia” del sistema italiano. E invitava il nostro Paese a fare di più per contrastare il fenomeno della tratta e proteggere le vittime. In particolare, si chiedeva di «aumentare gli sforzi per identificare le vittime del traffico, soprattutto i bambini che sono vulnerabili ai lavori forzati e allo sfruttamento sessuale, e per identificare migranti e richiedenti asilo al fine di individuare le possibili vittime di traffico e proteggerle dalla deportazione che potrebbe contribuire alla ri-tratta». Esattamente quello che succede nel Cie di Ponte Galeria.
D’altro canto, altrettanto drammatica è la situazione di chi invece ottiene un documento di protezione umanitaria. Non appena ricevuto il decreto, infatti, vengono messe fuori dal Cie, sole e abbandonate a loro stesse. In sostanza, queste donne, a cui il nostro Paese ha riconosciuto la protezione umanitaria sulla carta, nei fatti sono lasciate nelle mani di chi continuerà a sfruttarle in condizioni di schiavitù.
Ma anche questo fa parte delle nuove modalità di assoggettamento delle nigeriane. Se prima una forma di ricatto e di controllo era legata al fatto che queste donne erano tutte irregolari, oggi i trafficanti di merce umana destinata alla prostituzione forzata si sono inseriti abilmente nei canali istituzionali della protezione umanitaria prevista dal nostro Paese.
In sostanza, come spiega suor Claudia Biondi di Caritas ambrosiana, responsabile del servizio che si occupa del disagio delle donne «i trafficanti hanno smesso di fabbricare documenti falsi, utilizzare visti turistici o pagare voli internazionali, riescono a fare entrare migliaia di donne attraverso i canali istituzionali dell’ospitalità per i richiedenti asilo. Una volta sbarcate, fanno fare alle donne domanda per l’asilo. Dopo aver ricevuto dalla Questura il cedolino, e in attesa che la Commissione territoriale valuti la loro domanda di protezione, vengono sbattute in strada per ripagare il debito che hanno contratto per il viaggio».
E’ quanto conferma anche suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, responsabile dell’Ufficio operativo “Tratta donne e minori” della conferenza delle religiose italiane (Usmi) e presidente dell’associazione “Slaves no More”. Dal 2003, insieme a un gruppo di una decina di suore di diverse nazionalità, entra tutti i sabati pomeriggio nel Cie di Ponte Galeria per offrire un momento di ascolto, preghiera ed eventualmente sostegno e aiuto alle donne che vi sono detenute, in gran parte nigeriane. «Dall’estate del 2015 – testimonia suor Eugenia – notiamo un vero boom di ragazze provenienti dalla Nigeria sempre più giovani e sprovvedute. Non sanno di poter denunciare chi le sta sfruttando. Anzi, si fidano solo dei loro “trafficanti”, che sono gli unici riferimenti che hanno in Italia e che danno loro tutte le indicazioni necessarie per fare la richiesta di asilo politico. Per poi buttarle sempre e comunque su una strada. Servirebbe invece una strategia più accurata per intercettare queste donne, fragili e devastate dalla traversata del deserto e del Mediterraneo, direttamente allo sbarco: sarebbero però necessari operatori formati e competenti, in grado di individuare le vittime di tratta».
Precious è una di loro. Stesso viaggio via terra e via mare, stesse violenze e maltrattamenti, e una richiesta di asilo accettata. A cui ha fatto seguito l’immediata fuoriuscita dal Cie. Precious se ne stava sola e smarrita sul piazzale di fronte alla grande struttura di Ponte Galeria. Senza sapere cosa fare e dove andare. Certamente sarebbe finita di nuovo nelle mani dei suoi trafficanti se per un caso fortunato non avesse incontrato la presidente dell’associazione Be Free, Oria Gargano, che opera all’interno del Cie, fornendo soprattutto assistenza legale. Ora Precious si trova in una delle molte case di accoglienza gestite dalle religiose coordinate da suor Bonetti e ha intrapreso il lungo percorso di integrazione nel nostro Paese, a cominciare dall’alfabetizzazione.
È una situazione paradossale – denuncia Oria Gargano –: molte ragazze mandate nei Cie vengono rimpatriate, senza approfondire se siano vittime di tratta. Ma rimandarle a casa, anziché proteggerle, significa spesso re-immetterle nei circuiti del traffico. Ma anche farle uscire dal Cie, senza alcuna forma di aiuto e sostegno, significa abbandonare queste donne a loro stesse o rimetterle nelle mani degli sfruttatori. In questo modo, si continua a tradire anche il grande potenziale dell’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione, che per molti anni ha permesso di garantire protezione alle vittime di tratta e percorsi di integrazione nella nostra società. Una possibilità sarebbe far accedere le vittime di tratta alla procedura di richiesta di asilo, se ne hanno il diritto, inserendole però nelle strutture di protezione dell’articolo 18. Invece, questo articolo, oggi, viene completamente disatteso, con la conseguenza che assistiamo a un significativo passo indietro sia rispetto alla lotta contro la tratta sia rispetto alla protezione delle vittime, proprio in un momento storico in cui ci sarebbe bisogno di maggior lungimiranza politica e impegno concreto».