Milano Chiesa dalle genti

Milano Chiesa dalle genti

Una Chiesa che cambia e prova a vivere in modo nuovo e pieno la propria cattolicità anche grazie alla presenza dei migranti. Il senso del Sinodo ambrosiano in questa nostra intervista all’arcivescovo Delpini

 

Nella Giornata mondiale delle migrazioni domenica pomeriggio alle 16 nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano l’arcivescovo Mario Delpini aprirà il Sinodo minore sul tema della «Chiesa dalle genti». In vista dell’appuntamento mons. Delpini ha rilasciato questa intervista a Mondo e Missione, che aprirà il numero di febhbraio 2018 della rivista e qui anticipiamo in anteprima.

 

Da quando è diventato arcivescovo di Milano nel luglio 2017, una delle prime iniziative promosse da mons. Mario Delpini è stata quella di affrontare le questioni e le sfide che la presenza dei migranti pone non solo alla società e alla politica, ma anche alla Chiesa. E lo ha fatto riprendendo l’antica tradizione ambrosiana dei Sinodi minori, ovvero di assemblee ecclesiali più agili del Sinodo diocesano, ma comunque coinvolgenti. Tutta la comunità cristiana, infatti, è chiamata a confrontarsi e a esprimersi su responsabilità e prospettive di una “Chiesa dalle genti”, sulla base di un documento preparatorio presentato dallo stesso arcivescovo domenica 14 gennaio.

Quella ambrosiana è una Chiesa di antica tradizione, molto vasta – con le sue oltre mille parrocchie – e ben strutturata. E tuttavia, in questi anni, è diventata sempre più una Chiesa dai molti volti: quelli dei tanti fedeli di diverse origini, culture e tradizioni che sono ormai parte integrante della comunità cristiana ambrosiana. Una presenza che pone nuove istanze, solleva diverse questioni, ma porta anche un contributo di novità, giovinezza e vivacità. Una Chiesa che cambia, insomma. Anzi, che è già cambiata. E che cerca ora – attraverso questa esperienza sinodale – non tanto di riflettere “sui” migranti, ma di approfondire il cammino di comprensione, testimonianza e vita cristiana “con” loro. Per provare a vivere in modo nuovo e pieno la propria cattolicità.

 

 

Mons. Delpini, perché questo tema e perché ha deciso di affrontarlo attraverso un Sinodo minore?

«L’idea era che ci fosse una sessione del consiglio pastorale diocesano sul tema dell’accoglienza e della configurazione di una convivenza fraterna con persone che vengono da tanti posti della terra e da tante culture. Poi, però, si è visto che il tema aveva tante complessità. Avevamo bisogno di una consultazione più capillare, di un ragionamento più tranquillo, di una visione più complessiva, in cui appunto il tema non fosse più soltanto quello dei migranti. La questione di fondo, infatti, è quale Chiesa diventiamo e se ci rendiamo conto di essere formati dalle genti. La nostra non è semplicemente una Chiesa ben consolidata e fiorente nella sua tradizione ambrosiana, ma è una Chiesa che cambia sia perché cambia il mondo in cui viviamo sia perché cambiano le persone che la compongono. Anche alcune parole come accoglienza, assistenza e integrazione ci sono sembrate un po’ inadeguate o comunque contenevano una sorta di inerzia nel loro significato. È come se dicessimo che noi siamo già ben configurati e ora si tratta di vedere come altri possono entrare in questa Chiesa. Invece, mi sembra necessario cercare di vedere che Chiesa sarà quella che si forma accogliendo genti che vengono da tutte le parti del mondo. Dunque, non si tratta tanto di un Sinodo “sui” migranti, o sul problema delle migrazioni, dei rifugiati o delle varie forme di assistenza. È un Sinodo sulla Chiesa locale che si riconosce costituita da tutte le persone che sono battezzate e abitano in questo territorio».

Quali sono i cambiamenti più significativi che la presenza di comunità di origine straniera ha introdotto nella Chiesa ambrosiana?

«Andrebbero dettagliati i vari ambiti. Questa presenza multietnica e multiculturale sta cambiando, ad esempio, la scuola, sia quella statale che quella paritaria. Le scuole create dalla comunità cristiana accolgono persone di diverse provenienze e chiedono loro di fare percorsi scolastici che dovranno certamente insegnare la lingua italiana, trasmettere la cultura del nostro Paese e quella di questo territorio. Però dovranno anche accogliere le istanze di persone che portano con sé una cultura e un modo diverso di studiare e anche di immaginare la propria fede e la propria relazione con la Chiesa. Anche nel consiglio pastorale diocesano sono state introdotte alcune persone che rappresentano queste comunità. Da loro raccogliamo idee e valutazioni; ci aiutano a ridimensionare alcuni problemi o a mettere in evidenza con più serietà certe questioni. Esiste anche un coro, Elikya, che rappresenta un modo nuovo di pregare, cantare e danzare insieme. Nel complesso non mi sembra che ci siano ancora cambiamenti significativi, però alcuni stimoli li stiamo ricevendo e pare che siano promettenti».

Anche negli oratori?

«In effetti, un altro ambito in cui questa presenza è molto significativa è proprio quello degli oratori, che sono diventati un riferimento per i ragazzi che abitano nel territorio, che parlano più o meno l’italiano, che hanno modi diversi di giocare, stare insieme, passare l’estate, divertirsi e partecipare alla vita della Chiesa. Poi esistono anche iniziative specifiche o gruppi giovanili, almeno a Milano, composti da ragazzi e ragazze di diversa origine che condividono un percorso di fede, amicizia e impegno nella comunità cristiana».

Lei ha accompagnato l’indizione del Sinodo con alcuni gesti forti, come l’incontro con i migranti il 7 dicembre, prima del discorso di sant’Ambrogio, o quello con le badanti e le assistenti familiari. Che istanze pongono alla diocesi queste persone?

«A me sembra che la cosa più evidente sia il desiderio di essere riconosciuti, di non essere invisibili, mere presenze che si sa che ci sono, come le badanti, ma che non si notano. C’è il desiderio di essere riconosciti e apprezzati anche per il contributo dato e per il sacrificio che comporta il tipo di lavoro svolto. Ecco perché è stato interessante anche incontrare i vari gruppi prima del discorso di sant’Ambrogio, perché ciascuno ha tenuto a portare qualche dono. Come a dire: non veniamo solo a chiedere attenzione o aiuto, ma anche a portare qualcosa di nostro, cibi e bevande tipici, ma non solo, anche tradizioni culturali che possiamo offrire a questa Chiesa di Milano. Da questo io intuisco anche il desiderio di dare un contributo».

Quali sono a suo avviso le differenze più grandi tra una metropoli cosmopolita come Milano e il resto della diocesi?

«Dipende dalle concentrazioni o dal tipo di rapporto che si riesce a stabilire tra i vari gruppi. Perché non esistono gli italiani e i migranti. Esistono ecuadoregni, ghanesi, ucraini… insomma, è una realtà molto variegata e non si può fare un discorso troppo generale. La differenza tra la città e il paese, per come la percepisco io, è che nei paesi o nelle cittadine la presenza dei migranti è avvertita meno con un sentimento di preoccupazione o di invasione. Naturalmente occorre distinguere tra i migranti che sono qui da tempo e i rifugiati che invece sono in una situazione di “limbo”, di scarsa precisione su cosa fanno, su cosa possono fare, per quanto tempo devono stare… La situazione dei rifugiati è molto più complicata e preoccupante. Mentre per i migranti, se sono qui da anni e lavorano, la condizione è diversa e possono effettivamente dare un contributo, sia perché lavorano in posti dove magari gli italiani non vanno più, sia perché hanno una consuetudine con i luoghi di vita».

Sino a oggi la strada principalmente percorsa dalla Chiesa ambrosiana è stata quella delle cappellanie e, più recentemente, della parrocchia personale dei migranti. Il Sinodo potrebbe indicare un cambio di direzione?

«Sinora la logica delle cappellanie è stata quella di essere a servizio della prima generazione, in modo da favorire l’inserimento della seconda nella comunità locale. Comunità che deve essere attenta ad accogliere e accompagnare questi giovani nei percorsi di iniziazione cristiana. La logica delle cappellanie è quella di aiutare i ragazzi a far parte della comunità cristiana locale, non di essere un mondo a sé. Del resto, la cappellania può fare relativamente poco, perché i fedeli si incontrano una volta la settimana o anche più raramente. Certamente per chi arriva da terre con lingue e culture diverse, il fatto di avere un gruppo che parla la stessa lingua, che ha imparato a vivere in questa società e che ha anche un’attenzione solidale, è certamente di grande aiuto. È importante che ci sia un po’ aria di casa per chi si sente straniero. Per questo poter celebrare alcune feste nella propria lingua e con il proprio prete è di aiuto, anche per mantenere la fede e quel senso di appartenenza alla Chiesa di cui tutti abbiamo bisogno. Però la linea è quella di essere una comunità sola, una comunità che ha dentro diverse appartenenze, che non possono convivere ignorandosi».

E il dialogo interreligioso? Anche in Italia (e sui nostri territori) si pone sempre di più la questione della libertà religiosa, specialmente legata ai luoghi di culto e in particolare alle moschee…

«Non mi sembra che ci siano grosse reazioni rispetto ai luoghi dove si incontrano buddhisti o induisti, ebrei o altri… Il problema semmai riguarda l’islam che indubbiamente suscita reazioni forti perché si confonde il tema della preghiera musulmana con quello del terrorismo o della paura dell’invasione. Non credo che ci sia complessivamente una preclusione alla libertà di culto. Ho l’impressione che alcune religioni e in particolare l’islam suscitino particolari problemi o sospetti in riferimento a forme violente con cui alcuni, richiamandosi all’islam, hanno segnato la storia recente, gettando un’ombra su tutto il mondo islamico».

Il tema della paura attraversa molte delle narrazioni che si fanno oggi sulle migrazioni ed è entrato a far parte del sentire di molte persone, anche cristiane. Paura che crea diffidenza, ostilità e talvolta anche violenza. Come reagire a questo atteggiamento?

«Sono persuaso che costruendo una comunità cristiana in cui le diverse culture e tradizioni religiose si trovano insieme, si conoscono e si apprezzano vicenda, si possano smontare anche le paure. La paura non riguarda chi vive qui per lavorare, come tanti filippini o sudamericani che sono una presenza molto utile per la nostra società, ma è costruita dalla notizie relative soprattutto ai rifugiati o all’arrivo di persone malintenzionate motivate dal desiderio di conquista… È una costruzione mediatica piuttosto efficace, ma poco fondata. Realizzando un luogo di incontro sereno, si può apprezzare anche quello che ciascuno porta e smontare molte paure pregiudiziali».

Ci sono paure anche all’interno della Chiesa o rischi di chiusure identitarie?

«La mia percezione è che nei cattolici che vengono da altri Paesi ci sia una forma di adesione alla vita della Chiesa che nei nostri cristiani di antica origine si sta un po’ perdendo. Forse ci sono anche gruppi identitari all’interno della società milanese, ma il mio timore è che esistano soprattutto persone che non fanno granché conto sulla propria fede e sono orientate verso un’indifferenza un po’ scettica piuttosto che verso una rivendicazione identitaria»

In che modo l’esperienza dei missionari e dei fidei donum può essere utilmente valorizzata anche qui per promuovere una cultura dell’incontro?

«Abbiamo diversi preti che sono stati in contatto con culture di altri continenti e altri che continuano a esserlo anche oggi. Tutti loro possono dare un contributo nell’immaginare un modo diverso di pregare, stare insieme ed educare che potrebbe arricchire anche la Chiesa milanese. Gli Istituti missionari, poi, sono specializzati in questo, nell’entrare in un’altra cultura senza per forza assimilarsi ma senza neppure sentirsi stranieri. Il Pime e altri Istituti sono radicati nei mondi asiatici, africani o sudamericani e possono aiutarci ad affrontare questa sfida, indicando al Sinodo e alla Chiesa di Milano percorsi promettenti».

Qualche prospettiva?

«Nessuno di noi sa verso dove stiamo andando esattamente, ma abbiamo fiducia nello Spirito Santo che ci aiuterà a trovare forme di vissuto ordinario che ci consentiranno di essere “Chiesa dalle genti”, Chiesa in cui nessuno si senta straniero e che d’altra parte è radicata in un territorio e vive una tradizione ambrosiana».