Un’indagine dell’Osservatorio Giovani dell’Isituto Toniolo mette sotto i riflettori la religiosità dei figli delle famiglie immigrate: credenti, ma meno attaccati alla tradizione e più aperti al dialogo
Come si trasmette la fede all’interno delle famiglie immigrate? E quali differenze tra il modo di vivere la religiosità dei giovani e quello dei loro genitori? Sono i temi che affronta la ricerca «Di generazione in generazione. La trasmissione della fede nelle famiglie con background migratorio», realizzata dall’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo e presentata oggi a Milano nell’ambito del cammino del Sinodo dalle genti, voluto dall’arcivescovo Mario Delpini per affrontare il tema di come cambia il volto della Chiesa ambrosiana a partire dalla presenza dei migranti cristiani giunti in Lombardia dai quattro angoli del mondo.
Curata da Rita Bianchi, Fabio Introini e Cristina Pasqualini – ricercatori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – e raccolta in un volume edito da Vita e Pensiero, l’indagine offre una fotografia interessante, frutto di 149 interviste condotte tra giovani tra i 18 e i 29 anni di diverse religioni (cattolici, ma anche cristiani di altre confessioni, musulmani, sikh, buddhisti…) ma anche genitori e guide spirituali delle comunità immigrate a Milano.
Secondo i ricercatori l’esperienza migratoria non solo non ha fatto perdere loro la fede, ma ha addirittura aumentato l’attaccamento ad essa, rinforzandola. Anche per questo motivo i migranti di prima generazione considerano importante riuscire a trasmetterla ai propri figli. Questi ultimi, pur rispettando le peculiarità dei propri genitori, hanno, invece, iniziato a interiorizzare alcune caratteristiche che il rapporto con la fede assume presso i giovani italiani. Come questi, tendono infatti a privilegiare una fede che non si accompagna necessariamente a una forte appartenenza o a un legame con le istituzioni che la rendono esperienza collettiva e ne guidano la pratica.
«Oltre ad essere “nativi cosmopoliti”, i giovani di oggi sono orientati a un forte pragmatismo, cioè alla voglia di fare, di costruire, di impegnarsi – ha commentato durante la presentazione fabio Introini, uno dei curatori -. Dalla ricerca emerge che tutti i leader intervistati hanno riconosciuto, seppur con gradazioni diverse, una certa “protestantizzazione” della fede giovanile, vissuta tendenzialmente in modo più privato che pubblico».
Riguardo alla pratica religiosa per molti giovani migranti cattolici e ortodossi è sentita come una pesante e arrugginita armatura, da indossare controvoglia, in un contesto socio-culturale sempre più secolarizzato. Per i musulmani, i sikh e in misura decisamente minore per i buddisti, la fatica di raccogliere il testimone sta nel dover fare consapevolmente la scelta di praticare una fede cui tutto il contesto è tendenzialmente ostile (musulmani) o che impone regole e precetti che rendono così marcatamente diversi, da doversi continuamente spiegare (sikh).
Le giovani generazioni, per lo più nate e cresciute in Italia sono contaminate dall’incontro con la cultura del Paese ospitante, che produce un effetto di ibridazione, ma soprattutto una sorta di ammorbidimento di alcuni elementi. Il valore del rispetto reciproco è importante per tutti gli intervistati. Il pluralismo, in questa visione, esalta la libertà di scelta, rende consapevoli delle basi del proprio credo, consente di metterle in discussione e le sottopone a costruttiva critica. Ci si può, come emerge dal racconto di alcuni giovani, costruire una fede personale che supera l’educazione standard e diventa un’esperienza vissuta ad un livello più alto di approfondimento.
«Al contrario di quando spesso affermano i politici, non è vero che il mondo sta cambiando perché arrivano i migranti, ma piuttosto è vero il contrario: il mondo è cambiato ed è per questa ragione che giungono da noi persone da altre parti del mondo – ha detto commentando i risultati don Alberto Vitali, responsabile della pastorale dei migranti dell’arcidiocesi di Milano -. Con il Sinodo “Chiesa dalle Genti”, che si concluderà il prossimo 3 novembre, la Diocesi di Milano si è messa davanti allo specchio e ha preso atto di questa realtà: per noi cattolici è più importante il battesimo della nazionalità scritta sul passaporto. La Chiesa ambrosiana deve imparare a parlare a fedeli che hanno incontrato la nostra stessa fede in altre parti del mondo e che ora sono tra noi, cominciando proprio dai giovani».