I dati del Dossier immigrazione dell’Idos: nel 2019, grazie allo «ius sanguinis», sono stati oltre 100 mila i «nuovi italiani» che sono nati o vivono all’estero, contro le 127 mila acquisizioni di cittadinanza di migranti residenti da tempo nel nostro Paese e dei loro figli nati in Italia
Paese di immigrazione da quasi cinquant’anni, l’Italia registra un continuo aumento di nuovi cittadini di origine straniera: dal 2012 hanno superato quota 1 milione. Eppure, a causa di una legislazione che guarda prevalentemente al passato, diventare italiano per chi nasce e si forma nel nostro Paese o ci vive da molto tempo è più difficile che per i discendenti di emigrati italiani nati all’estero e che lì risiedono (spesso) stabilmente: nell’insieme oltre 2,3 milioni di persone che rappresentano un ulteriore, importante, tassello del profilo sempre più plurale della comunità nazionale.
Lo anticipa il Dossier Statistico Immigrazione 2020 realizzato dal Centro Studi e Ricerche IDOS in partenariato con Confronti, che verrà presentato il prossimo 28 ottobre.
Su base annua, il numero più alto di acquisizioni di cittadinanza da parte di stranieri residenti in Italia si è toccato nel 2016, quando se ne contarono più di 201mila. E dopo la flessione registrata tra il 2017 (147mila) e il 2018 (112.500), nel 2019 il loro numero è risultato di nuovo in aumento: 127 mila (+12,9%), pari a 24 ogni mille stranieri residenti. Un fenomeno destinato a crescere, seppure in maniera non necessariamente lineare e che coincide con quel processo di progressiva inclusione che caratterizza tutti i movimenti migratori; e ben più rilevante, sul piano numerico, di altri aspetti costantemente al centro del dibattito pubblico (gli “sbarchi”, ad esempio, tra il 2018 e la metà del 2020 hanno coinvolto in tutto 45 mila persone).
A conferma di percorsi di radicamento e stabilizzazione avanzati e di una popolazione immigrata composta prevalentemente da famiglie, è elevato tra le acquisizioni degli stranieri residenti il peso dei giovani che diventano a tutti gli effetti cittadini italiani (per trasmissione da parte dei genitori o, per i nati in Italia, al compimento del diciottesimo anno di età): quasi 357 mila nel periodo 2012-2018, il 38,2% del totale.
Un numero importante, ma da cui – come è noto – restano esclusi numerosi minori figli di cittadini stranieri, ma nati in Italia e che in Italia svolgono il loro percorso di vita, di formazione e di socializzazione, non avendo alle spalle alcuna personale esperienza di migrazione. Un’indicazione in questo senso viene dai dati sulla scuola, dove quasi i due terzi di tutti gli studenti di cittadinanza straniera sono nati in Italia: il 64,5% (ma il 75,3% nella scuola primaria e l’85,3% in quella dell’infanzia), mentre i dati demografici attestano quasi 570 mila “nascite straniere” nel Paese nel periodo 2012-2019 (di cui 63 mila nell’ultimo anno, il 15% di tutte le nascite).
Allo stesso tempo è notevole tra i “nuovi cittadini” il numero di chi, al contrario, vanta un’ascendenza italiana, ma la cui eventuale presenza in Italia o esperienza del Paese restano necessariamente legate a una migrazione: è il caso dei discendenti degli emigrati italiani, anche del passato, nati all’estero ma nel diritto di acquisire iure sanguinis la cittadinanza del nostro Paese. Nel 2019, sono state 9 mila le acquisizioni di cittadinanza per discendenza da avo italiano e 91 mila gli italiani nati all’estero da nostri concittadini lì residenti.
Un quadro, quello descritto dai dati, che rispecchia un impianto legislativo ancorato più al passato dell’Italia, quale “grande Paese di emigrazione”, che al suo presente di “importante Paese di immigrazione”. Basti solo considerare che l’attuale legge sulla cittadinanza, oltre a essere imperniata sullo ius sanguinis, non prevede alcuno sbarramento nel risalimento delle ascendenze, per cui uno straniero che possa vantare avi della Penisola persino precedenti all’Unità d’Italia può acquisire la cittadinanza italiana più facilmente di uno straniero che, pur nato e cresciuto in Italia, non possa dimostrare tali ascendenze. Si tratta di un meccanismo evidentemente sganciato dalle dinamiche demografiche e sociali che oggi caratterizzano il Paese e che spesso finisce per agire come un vettore di esclusione, in particolare nel caso delle cosiddette “seconde generazioni”: componente crescente e integrante della comunità nazionale, ma ancora in cerca di riconoscimento.