Sull’isola degli sbarchi, alcuni missionari sono in prima linea a favore dei migranti. Due progetti di ascolto e accoglienza con religiosi e religiose di diverse provenienze e congregazioni
«Nella lingua kiswahili che ho imparato in Tanzania, non esiste la parola “straniero”. Lo straniero è semplicemente “ospite“, allo stesso modo di una persona che viene a visitarmi e che appartiene alla mia stessa cultura. Non si tratta solo di un aspetto linguistico: verso l’ospite c’è un dovere, è colui che non solo viene a visitarti ma porta del suo, ti arricchisce. Questo è ciò che l’Africa mi ha insegnato, e sto cercando di metterlo in pratica qui in Sicilia».
Padre Gianni Treglia, 49 anni, è missionario della Consolata e ha vissuto per sedici anni in Tanzania. Dalla fine del 2015 fa parte del gruppo che la Conferenza istituti missionari in Italia (Cimi) ha scelto di inviare in Sicilia per inaugurare una presenza nuova, accanto ai migranti che sbarcano dopo la traversata del Mediterraneo. La novità sta anche nella scelta di superare le etichette fra le varie congregazioni: a far parte della comunità Cimi – che si è stabilita a Modica, in provincia di Ragusa, dal marzo 2016 – ci sono, oltre a padre Gianni e a suor Raquel Soria della Consolata, padre Vittorio Bonfanti dei Missionari d’Africa e suor Giovanna Minardi delle Missionarie dell’Immacolata. I primi tre sono stati in missione in Africa (Tanzania, Kenya e Mali), suor Giovanna invece ha vissuto per 21 anni in Cina.
«Fra le varie lingue e culture africane di chi arriva qui in Sicilia ci sappiamo destreggiare. E considerando il fatto che suor Raquel è di origine latinoamericana, copriamo quattro continenti su cinque», commenta padre Gianni. L’obiettivo è proprio quello di mettere le competenze acquisite dai missionari in altri continenti a servizio della difficile sfida dell’accoglienza dei migranti. La decisione, avvenuta alla vigilia del Giubileo della Misericordia, dopo un percorso di riflessione e condivisione fra istituti missionari, ha una valenza concreta e simbolica al tempo stesso: «È cambiato molto da quando i nostri istituti sono stati fondati – afferma padre Gianni -. L’Africa ora arriva qui da noi in Europa, e ci sentiamo interpellati».
«Abbiamo iniziato la nostra vita comunitaria il 17 marzo 2016 – racconta suor Giovanna Minardi -. Io sono siciliana, nativa di Giarratana, a pochi chilometri da Modica; quindi conoscevo bene il territorio. Appena arrivati abbiamo girato la Sicilia per capire qual era la situazione degli immigrati e incontrare persone e associazioni che, nelle diverse diocesi, si occupano dell’accoglienza. All’inizio abbiamo soprattutto ascoltato. In molti ci segnalavano che l’area dove c’era più bisogno era quella sud-orientale dell’isola: Pozzallo, dove gli sbarchi sono quasi quotidiani, era anche il luogo dove la gestione del fenomeno migratorio era più carente».
La scelta di stabilire la comunità a Modica è scaturita dal dialogo con il vescovo della diocesi di Noto e con il direttore della Caritas Maurilio Assenza. E da allora, nell’arco di un anno, le attività si sono moltiplicate. «Abbiamo cominciato con una scuola di italiano, di martedì e venerdì, un corso al mattino e uno alla sera, per donne adulte – spiega suor Giovanna -. Ci aiutano una trentina di volontari, in locali messi a disposizione dalla Caritas di Modica e dalla parrocchia di San Pietro». La scuola, oltre a offrire lezioni gratuite, vuole essere un punto di riferimento per le donne, che spesso hanno attraversato situazioni drammatiche di violenza. Con lo stesso intento, a Pachino i missionari operano nel presidio aperto dalla Caritas, presenza costante su un territorio che vive stagionalmente l’arrivo di migranti per il lavoro nei campi. «Non distribuiamo cibo e vestiti: a questo tipo di assistenza ci pensano già altri – spiega suor Giovanna -. La Cimi ci ha chiesto di lavorare sull’integrazione e la formazione, e di concentrarci sulla relazione con le persone. Al presidio, i migranti sanno di poter trovare informazioni, un avvocato, un medico, un assistente sociale. È un luogo di ascolto e incontro».
A Pozzallo, dove avvengono gli sbarchi, è nato un centro di aggregazione aperto anche ai minori non accompagnati. «Abbiamo allestito una stanza con dei computer a disposizione di chi vuol collegarsi e mettersi in contatto con i famigliari o amici – spiega la religiosa -. E semplicemente ci siamo, insieme ai volontari, per chiunque voglia parlare con noi».
Un altro fronte delicato sul quale la comunità dei missionari Cimi è impegnata è l’accompagnamento spirituale: «Questa richiesta è arrivata da una fondazione di Ragusa che gestisce un centro d’accoglienza – racconta suor Giovanna -. Abbiamo fatto una prima esperienza lo scorso Natale: prima abbiamo chiesto il parere delle persone accolte, in maggioranza musulmane, e poi abbiamo organizzato un momento di preghiera interreligioso, rivolgendoci a Dio come Padre di tutti».
A proposito di missioni delicate, suor Raquel ne ha appena iniziata una nel carcere di Noto. «Ha ricevuto il permesso delle istituzioni ed entra in carcere una volta alla settimana – dice suor Giovanna -. Lì, fra gli altri, ci sono diversi scafisti. Anche loro hanno bisogno di essere ascoltati».
In Sicilia, missionari e missionarie fanno da ponte fra la comunità locale e i migranti: è il caso, in particolare, di un altro progetto avviato a fine 2015, questa volta dall’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg). «L’Uisg celebrava il suo cinquantesimo anniversario e abbiamo optato per un gesto concreto in risposta ai diversi appelli di Papa Francesco sulla situazione dei migranti – spiega suor Elisabetta Flick, religiosa delle Ausiliatrici del Purgatorio, responsabile del progetto -. Per prima cosa ne abbiamo parlato con il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento. Lui ci ha invitate a non arrivare con un progetto già definito, ma a lasciarci interpellare dalla realtà e a seguire lo Spirito, aprendo occhi, orecchie e cuore. Abbiamo fatto così per sei mesi, poi siamo partite con diverse iniziative».
Le religiose inviate dall’Uisg sono dieci e provengono da otto Paesi diversi: Argentina, Etiopia, Eritrea, Francia, India, Italia, Polonia, Repubblica Democratica del Congo, appartenenti a otto diverse congregazioni. Si sono divise in tre comunità, stabilendosi ad Agrigento, Caltanissetta e Ramacca (Ct). Non gestiscono una propria struttura di accoglienza, ma supportano progetti di altre organizzazioni e della Chiesa locale. Ad Agrigento hanno avuto dal prefetto il permesso di accedere al centro di accoglienza di Siculiana, dove sono presenti più di 300 donne e bambini e dove, quando gli sbarchi sono numerosi, gli ospiti possono arrivare a 700. Qui parlano con le persone nelle loro lingue natali e fanno da interpreti fra gli ospiti e gli operatori: «In questo modo veniamo a conoscenza di tante storie, le prendiamo su di noi – dice suor Elisabetta -. Ascoltiamo molto, cerchiamo di dare alle persone orientamento e informazioni, ma soprattutto le aiutiamo a recuperare una dignità fatta a pezzi, durante il viaggio, da soprusi e violenze subite. Un altro aspetto del nostro lavoro è la sensibilizzazione nelle parrocchie, nelle scuole, fra la gente. Non lavoriamo solo per gli immigrati, ma per i poveri. Cerchiamo di creare ponti fra chi arriva ed è in una situazione di emergenza e la realtà locale».
Ad Agrigento le religiose si sono messe a disposizione della Caritas diocesana e lavorano in una mensa diurna, ma si prendono anche il tempo per andare per strada, per incontrare i migranti e parlare con loro. «A Catania, grazie alla mediazione di una nostra sorella indiana che parla urdu, siamo presenti in una piccola tendopoli sorta sotto il ponte di un’autostrada, dove si accampano immigrati pachistani e bengalesi che non hanno un altro luogo dove andare a dormire – racconta suor Elisabetta-. Sono situazioni di estrema precarietà: ogni due mesi l’accampamento viene sgombrato dalla polizia, e i suoi abitanti dopo poco tempo ricostruiscono tutto da capo»L’idea è di raggiungere chi ha bisogno là dove si trova: «Da poco abbiamo avuto in dono un pulmino, che vorremmo utilizzare come centro d’ascolto mobile per poterci spostare nelle campagne, dove si ferma chi non ha diritto all’accoglienza».
A ispirare le religiose è l’invito di Papa Francesco: essere una «Chiesa in uscita» che va incontro alle persone. Anche se le difficoltà non mancano e le lentezze burocratiche sono esasperanti. «In Sicilia, ma vale anche per l’Italia, si dà ai migranti una prima accoglienza – dice suor Elisabetta -. Ma il secondo passaggio, quello verso l’integrazione, con un lavoro e un progetto di vita, purtroppo ancora manca».