Oggi la missione affascina ancora i giovani? Sembrerebbe di sì. Come ci racconta Maria che ha saputo accettarne anche gli imprevisti
Che cosa spinge una ragazza di trent’anni, che ha superato una dura lotta contro il tumore, a recarsi in un Paese lontano e difficile come il Bangladesh per un’esperienza di missione? «Il desiderio di andare… in Africa!». Risponde con un sorriso Maria Guida, consapevole del paradosso. Lei, in effetti, l’”aria” di missione l’aveva respirata attraverso i genitori che avevano frequentato per anni il gruppo delle famiglie missionarie del Pime di Ducenta (CE).
«Avevo partecipato ad alcuni incontri, ma all’inizio il tema della missione non mi attirava più di tanto – ricorda Maria, laureata in architettura e appassionata di fotografia -. Poi, però, non so esattamente perché, ho iniziato a desiderare di andare in Africa». Da lì il riavvicinamento al Pime e la scelta di intraprendere il percorso formativo Camminando. Ma al momento delle destinazioni… «Siccome, dopo la malattia, sono un po’ “fifona”, non volevo fare troppi vaccini e profilassi, come richiesto per l’Africa. Così ho chiesto di essere mandata altrove. Tanto, a quel punto, avevo capito che la destinazione in sé non era la cosa più importante».
Perciò, dopo due anni di preparazione, lo scorso agosto Maria è stata inviata in Bangladesh con altre due ragazze, Emanuela e Pina. Un viaggio che si è rivelato una sorpresa sin dall’inizio. Perché la missione è una cosa quando la si vive indirettamente attraverso testimonianze, letture, approfondimenti. Poi, quando si è sul campo, tutto cambia…
«Innanzitutto, dopo tre giorni di missione a Savar Dhaka, un villaggio poco a nord della capitale, ho preso subito un’influenza fortissima! – racconta Maria appena rientrata -. Avevo la febbre a quaranta, vomito, diarrea, tosse… Emanuela e Pina mi hanno fatto da infermiere. Ma dopo qualche giorno sono dovuta tornare a Dhaka, da sola, per fare delle visite in ospedale. Non avevo mai avuto la febbre così alta ed ero spaventata. Volevo tornare a casa e credevo di essere di peso a tutti». La missione per Maria sembra interrompersi sul nascere, con un programma che salta completamente e l’improvvisa separazione dalle compagne di viaggio. Una grande delusione.
«Poi però – continua – ho capito che non tutto quello che vogliamo si può ottenere. Mentre ero malata ho ricevuto da un amico un messaggio che diceva: “Accetta l’esperienza così com’è: tutto è grazia”. Perciò quando sono stata meglio ho accolto con spirito nuovo l’imprevisto di trovarmi da sola a Dhaka, a fare vita comunitaria con le missionarie dell’Immacolata che mi ospitavano, anche se non era quello che avevo desiderato».
Nell’immaginario di molti – e anche di Maria – il Bangladesh era un Paese di villaggi e foreste. «E invece mi ritrovavo in una città enorme e trafficatissima. Mi ci è voluto un po’ per capire che quello che desideravo non era quello di cui avevo veramente bisogno. Mentre il silenzio, la solitudine e l’attesa che ho vissuto a Dhaka mi sono serviti per guardarmi dentro e per guardare in modo diverso quello che mi stava attorno».
Maria ha così sperimentato un Bangladesh inaspettato: quello caotico e disordinato della sua capitale. Ha visitato baraccopoli, ospedali e scuole: ha potuto conoscere meglio le persone che aveva attorno, le loro vite, le difficoltà e le gioie. «I miei occhi sono sempre stati pozzi profondi, difficili da colmare; ma in Bangladesh si sono riempiti di tante cose nuove, di persone, di storie… E anche questo, per me, è stato missione».