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Devil hunt

Nei mesi di luglio e agosto dell’anno scorso, milioni di persone in qualche modo appoggiarono la ribellione (in cui perirono – si dice –  1.400 persone) contro il regime che aveva governato il Bangladesh negli ultimi quindici anni, e costrinsero alla fuga in India la Primo ministro Sheikh Hasina. Ma come era prevedibile, questa “concordia contro” ha fatto presto a sgretolarsi. Ne ho parlato in due “schegge” precedenti: scioperi, dimostrazioni violente, minacce, reciproche denunce di ogni tipo, spesso costruite ad arte per mettere nei guai, contraddicevano tragicamente la presunta unità della ribellione, mentre la delinquenza comune (furti, saccheggi, rapimenti e omicidi) continuava ad aumentare, approfittando della situazione di semi-anarchia in cui si trovava il Paese.

Adesso (8 marzo 2025), a che punto siamo? Uno sguardo al Bangladesh dall’angolo in cui mi trovo (provincia di Dinajpur, nel nordovest) suggerirebbe una riposta positiva. Se è vero che i prezzi aumentano, bisogna riconoscere che le cause non sono così straordinarie: la situazione internazionale crea problemi anche qui, il “ramadan” (mese di digiuno islamico) appena iniziato vede sempre l’aumento rilevante di prezzi di alcuni prodotti. La gente lavora e viaggia, da un certo tempo non si segnalano disordini di rilievo, e qualche manifestazione organizzata si è svolta senza gravi problemi. Ma Dinajpur non è un termometro affidabile, e – per quanto ne so –  non è mai stato un posto con rilevante peso politico. Diversa è la situazione in altre aree, prima fra tutte la capitale Dhaka, che deve inghiottire una quotidiana dose di dimostrazioni, blocchi, proteste di ogni tendenza e per le più svariate ragioni. I sostenitori di posizioni diverse si confrontano ricorrendo alla violenza con estrema frequenza, anche fra membri dello stesso partito o movimento. Poche settimane fa ne è stata teatro l’Università di Ingegneria e Tecnologia di Khulna, dove centinaia di studenti si sono combattuti per ore a seguito della decisione dell’Università stessa di bandire la politica dal “campus”; erano i giovani del “Movimento Contro le discriminazioni” che aveva avviato e guidato la ribellione dell’estate scorsa, e il “Chattro Dol”, sezione giovanile del BNP (Partito Nazionale del Bangladesh) che li aveva sostenuti con entusiasmo. Alleati nella rivolta, si sono fronteggiati in risse gigantesche, con attacchi e contrattacchi organizzati che hanno provocato almeno cinquanta feriti; alcuni commentatori parlano di un ritorno alla “politica tossica” praticata dagli studenti fino a pochi mesi fa. La facoltà è ora chiusa, a tempo indeterminato.

Quanto all’ordine pubblico, il governo provvisorio ha proclamato un “Devil Hunt” (letteralmente: “Caccia al diavolo”) istituendo un reparto speciale di militari, polizia e altri corpi paramilitari, per combatterla con energia. In poche settimane sono stati effettuati oltre 10.000 arresti, e preoccupa il fatto che molti detenuti fuggiti dalle carceri durante le proteste, siano ancora a piede libero. Le strade di Dhaka sembra non conoscano sosta fra marce, blocchi, ostruzionismi per i più svariati motivi: “concedere” una identità specifica ai tribali, o negarla in nome della non discriminazione… trasferire una sede universitaria… dichiarare che il diritto di usare il titolo di “dottore” appartiene anche ad alcune categorie di operatori sanitari non laureati in medicina, oppure negarlo perché i medici vogliono l’esclusiva… trasferire una sede universitaria… affiliare un college a una certa università… Ultimamente si sono aggiunte manifestazioni e proteste contro la violenza alle donne; motivazione più che giusta, ma le richieste esigerebbero un governo ben articolato e forte, capace di elaborare decisioni praticabili ed efficaci; cioè un governo che certamente non è quello attuale, non eletto, provvisorio, impotente, che entrando in quel tema si troverebbe fra i due fuochi degli islamici conservatori e progressisti…

Un colpo di stato, militare o civile, ha – bene o male – un progetto alternativo da proporre o da imporre. Nel nostro caso l’alternativa a ciò che si voleva abbattere era lodevole: basta con la corruzione le discriminazioni, il “fascismo”. Giusto… e poi? Poi le elezioni! Certo, ma come, quando, preparate e controllate da chi? C’è chi chiede un governo “neutrale” o “imparziale” per organizzarle, ma resta da capire come lo si potrebbe formare e chi potrebbe giudicare imparzialmente l’imparzialità. C’è chi esige che si tengano prima le elezioni locali (provincie, comuni) e dopo quelle generali – e chi esige invece che le elezioni generali si svolgano prima e al più presto…

Non mancano gli inviti alla calma e all’unità, con dibattiti anche molto seri su ciò che serve oggi al Paese e come conseguirlo. Affidando la politica ai giovani? Yunus, che presiede il governo provvisorio, ha cercato a lungo un linguaggio accettabile da tutti, prima esaltando l’eroismo degli studenti. Ha descritto i giovani come “pronti a governare il mondo”. Eppure fino a quando si sono scatenati rigettando ogni discriminazione vera o presunta, l’attività politica degli universitari era stata caratterizzata da soprusi, violenze, comportamenti “mafiosi” tutt’altro che esemplari. Yunus ha invitato alla calma, e anche alla riconciliazione con gli avversari; ma non pare che sia molto ascoltato. Alla fine è nato ufficialmente un nuovo partito formato dal movimento “contro la discriminazione” che mesi fa aveva dato il via e pilotato la parte fondamentale dei movimenti anti-regime.

I militari sono rimasti nell’ombra; dopo la caduta del governo di Hasina, sono intervenuti occasionalmente, su richiesta del governo provvisorio, per mantenere l’ordine pubblico, ma il loro silenzio – che stupiva – è stato rotto il 25 febbraio scorso con una dichiarazione del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, di cui cito alla lettera una parte introduttiva: “Vi sto avvisando. Se non riuscite a dimenticare le vostre differenze e a lavorare insieme, ma continuate ad infangarvi a vicenda, l’indipendenza e la sovranità di questo paese sarà in pericolo. Ve lo dico oggi perché in futuro non possiate dire che non vi avevo avvisati. La nazione appartiene a tutti. Tutti vogliamo vivere in pace e armonia. Noi non vogliamo conflitti, e stiamo lavorando perché sia così…” La dichiarazione continua con toni pacati, lasciando intendere chiaramente che l’esercito potrebbe essere costretto a entrare in campo. “Se non troviamo il modo di andare d’accordo, i problemi aumenteranno, e noi non lo vogliamo”. C’è anche qualche altra raccomandazione significativa: Non accusate l’esercito, siamo qui per offrire suggerimenti costruttivi; occorre organizzare elezioni libere, corrette e inclusive entro dicembre; le divisioni stanno accrescendo il deterioramento dell’ordine e della legalità; molti membri della Polizia non possono intervenire perché sono sotto accuse di illegalità; non squalificate i procedimenti giudiziari del processo sul massacro di Pilkhana: le atrocità sono state commesse dal personale delle allora “guardie di frontiera” e basta (cfr. sotto), quindi non andate a cercare altri colpevoli; non indebolite i responsabili della legge e dell’ordine e le agenzie segrete. Vogliamo vedere il Bangladesh come un Paese in buone condizioni, e tornare alle nostre caserme…”

Gli avvenimenti chiamati: “le atrocità” o “il massacro” di Pilkhana, accadero il 25 febbraio 2009 in un “cantonment”. Pilkhana è una vasta area di Dhaka sotto controllo militare, dove si trovano caserme, abitazioni per le famiglie, scuole, servizi sanitari. Apparentemente senza preavvisi di alcun genere, 57 ufficiali dell’esercito e membri delle loro famiglie furono uccisi. La responsabilità fu attribuita ai membri di un corpo di guardie di frontiera il cui compito era di agire agli ordini di ufficiali dell’esercito, che però essi accusavano di accaparrarsi i benefici concessi dal governo a loro e alle famiglie, anziché condividerli. Il massacro fu seguito da alcuni giorni di assedio al “cantonment”, e di altissima tensione in tutto il Paese, con sospetti e timori di colpi di stato, interventi stranieri e altro. Le autorità politiche promisero l’immunità a chi si fosse arreso. L’accordo non fu raggiunto, i ribelli furono processati e condannati a varie pene. Però, da quando Hasina è fuggita, la magistratura sta riesaminando un’infinità di processi del passato, di cui si sospetta (o si afferma categoricamente) che siano stati politicamente motivati. La maggiore avversaria di Hasina, Khaleda Zia, pure lei ex primo ministro, ha visto chiudere in pochi giorni ben 37 procedimenti penali avviati contro di lei durante il periodo di governo di Hasina. In questa ondata revisionista, qualche condannato a seguito del “massacro di Pilkhana” è stato liberato dal carcere, lasciando intendere che bisogna cercare anche altri colpevoli, e chiedendosi se gli ufficiali dell’esercito fossero davvero tutti innocenti. Ma il Generale taglia corto: non ci sono altri colpevoli: quel processo non si tocca…

Vien voglia di pensare che il futuro è… una scommessa, in cui entra anche l’incognita degli influssi di paesi stranieri su tutti questi avvenimenti: ci sono? Non ci sono? Recentemente è riemerso anche un altro “punto dolente” e il Partito Nazionalista ha organizzato una protesta di massa lungo il confine con l’India, che da anni il Bangladesh accusa di usare a proprio esclusivo vantaggio le acque che dall’India entrano in Bangladesh per confluire nel Golfo del Bengala; pure sul controllo del passaggio delle frontiere da parte di cittadini bengalesi non si trova un accordo soddisfacente, pare che le guardie di frontiera indiane abbiano il grilletto facile contro i contrabbandieri veri o presunti, e ogni anno un buon numero di loro viene ucciso. Si dovrà costruire un muro anche lì?

Dhaka, 8 marzo 2025

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