La testimonianza portata alla veglia missionaria dell’arcidiocesi di Milano da don Valerie Tchuente, sacerdote camerunese di 38 anni, paralizzato da un un incidente diciotto mesi fa. “Mi piace pensare che anche i più deboli possono essere missionari, perché bisogna sempre permettere che il bene venga comunicato anche se esiste accanto a molta fragilità”
Ieri sera a Milano nella veglia missionaria presieduta dall’arcivescovo Mario Delpini ha portato la sua testimonianza anche don Valerie Tchuente, un sacerdote camerunese di 38 anni, ritrovatosi all’improvviso diciotto mesi fa paralizzato a causa di un incidente. Proponiamo una nostra trascrizione delle sue parole, così significative sul senso più profondo della Giornata missionaria che oggi viviamo.
Sono qui stasera per parlare di ciò che ho visto e ascoltato. Come potete vedere sono un missionario su una sedia a rotelle. Questa condivisione è nello spirito di quelle belle e confortanti parole del Santo Padre papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata missionaria mondiale. Mi piace pensare che anche i più deboli, limitati e feriti possono essere missionari a modo loro, perché bisogna sempre permettere che il bene venga comunicato anche se esiste accanto a molta fragilità.
La mattina di martedì 27 aprile 2020 mi sono svegliato presto e, dopo aver finito la preghiera mattutina, sono andato a fare un po’ di sport prima di cominciare la mia giornata lavorativa. Fino a quella mattina, in Camerun, ero parroco, direttore del collegio e cappellano diocesano per i bambini. Durante lo sport tutto è cambiato: sono scivolato, ho perso l’equilibrio e sono caduto dall’alto. La mia spina dorsale è rimasta fratturata. Come l’uomo ferito nella parabola del buon samaritano sono stato portato in ospedale e la diagnosi è stata chiara: la lesione del midollo spinale è completa e la paraplegia irreversibile. In quel momento molte domande mi sono venute in mente: Signore perché? Ho solo 37 anni, è solo l’ottavo anno del mio sacerdozio, la mia mamma è appena morta, ci sono tutti i miei progetti… Dimmi Signore che è un brutto sogno, che quando mi alzerò andrà tutto bene. Ma non era un sogno: la mia nuova realtà, come dice papa Francesco una realtà di contrarietà e difficoltà, andava trasformata in opportunità per la missione.
Essendo le vie del Signore quelle che sono, mi sono ritrovato per sua sola grazia in mezzo a voi, curato dalla diocesi di Milano. Il Signore ha messo molti buoni samaritani sul mio cammino: i medici, le infermiere, le fisioterapiste, i sacerdoti, le suore, gli amici; sono tutti volti di questo buon samaritano che il Signore ha messo sul mio cammino. La vostra vicinanza è una vera testimonianza della dimensione missionaria. Da voi, durante questi mesi, ho imparato a capire il vero significato dell’universalità della Chiesa. Ora sento la chiamata a una nuova missione. Ho capito che l’abbandono alla provvidenza è un vero cammino di conversione e una vera terra di missione.
In effetti l’abbandono alla provvidenza richiede un vero viaggio interiore che comporta almeno tre tappe. Oggi posso dirlo con una certa sicurezza perché l’ho sperimentato. La prima tappa è il tempo della conversione dopo lo shock: ho dovuto prendere coscienza della mia nuova condizione di persona che doveva vivere con una disabilità e chiedermi come dovevo continuare a portare avanti la mia vita di sacerdote per rispondere alla volontà di Dio con questa fragilità.
La seconda tappa è l’abbandono alla divina provvidenza: ho imparato a fare mie le parole di san Paolo “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me”. Molti hanno pianto sulla mia sorte, molti altri hanno visto in essa la fine della mia missione di sacerdote, ma io ho scelto di arrendermi alla provvidenza di Dio affinché lui vivesse pienamente in me e mi aiutasse a compiere la sua missione in questa situazione di vulnerabilità e di fragilità. Perché, come dice papa Francesco, chi si offre e si dona a Dio per amore sicuramente sarà fecondo.
La terza tappa consiste nell’abbracciare e aggrapparsi alla speranza. Oggi quando faccio un passo indietro mi rendo conto che queste situazioni difficili mi hanno dato un’idea diversa della sofferenza, come un cammino di missione salvifica. La sofferenza non appare come una maledizione, come una punizione o un’altra fragilità poiché è stata redenta alla radice da quando Cristo l’ha presa su di sé. La prova più sicura che la bevanda di dolore che sto bevendo dalla mattina del 27 aprile 2020 non è avvelenata è che Gesù Cristo, il mio Signore, sulla sua croce ha bevuto lo stesso calice di dolore per tutti. Ha dimostrato che quello che sto bevendo non è un veleno ma che nel profondo c’è una perla mai vista prima, la perla della speranza, fonte della gratitudine, fonte dalla pace interiore, fonte dell’amicizia con Dio e con le persone. Gli adolescenti si affaticano, gli anziani inciampano, ma coloro che sperano nel Signore rinnovano le loro forze, si librano come aquile, corrono senza stancarsi.
A questo livello mi si è aperta una panoplia di opportunità provvidenziali per la missione della speranza. Qui penso a quelle persone che mi hanno chiesto come pregare il rosario, penso agli incontri missionari interculturali: la provvidenziale successione di molte nazionalità di personale sanitario. Penso a quelle infermiere che mi hanno ripetutamente espresso la loro volontà di armonizzare la loro vita professionale con la loro fede cristiana. E, infine, penso anche a un malato che una mattina mi disse: “Don Valerie, non credo in Dio, Dio non esiste”. Un punto di vista che è allo stesso irritante e stimolante per la missione della speranza.
Dopo diciotto mesi lontano e isolato dalla folla tra le mura della fragilità, della vulnerabilità, e anche dell’isolamento e delle conseguenze della pandemia di Covid-19, ho preso il tempo per cogliere questa esperienza come una grazia provvidenziale per la missione. Porto ancora le cicatrici dell’attacco e queste cicatrici mi ricordano l’amore provvidenziale di Dio e la certezza che la speranza non delude.
Sono un sacerdote di Gesù Cristo, un missionario della gioia del Vangelo dalla mia sedia a rotelle. Vorrei unirmi a tutti gli sforzi che la Chiesa continua a fare affinché l’amore di Cristo invada i cuori degli uomini e delle donne. E che ovunque vado, in qualsiasi modo, chiunque venga ad incontrarmi possa sperimentare anche quanto ho sperimentato io. Perché davvero non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato.