Nella Giornata missionaria mondiale dalla Cambogia il racconto di padre Alberto Caccaro che ha appena iniziato un nuovo servizio in un nuovo villaggio dove vivono quattro cristiani, da poco battezzati. «Ieri, nel giorno del mio compleanno, Pu-Koy è venuto a confessarsi. Cinquant’anni, cristiano dalla Pasqua di quest’anno, per la prima volta in vita sua si accostava al sacramento della riconciliazione…»
Kompong Cham, 22 ottobre 2016
«Il messale che conosco è un ricovero di vacche,
una greppia da riempire, il suono umile del fieno
in bocca a chi sa ruminare». (1)
Ieri Pu-Koy è venuto a confessarsi. Cinquant’anni, cristiano dalla Pasqua di quest’anno, per la prima volta in vita sua si accostava al sacramento della riconciliazione. A pochi mesi dall’aver ricevuto il battesimo, l’occasione di confessarsi gli veniva offerta a conclusione di “una tre giorni” che la Chiesa cambogiana ha dedicato al sacramento del perdono di Dio. Nell’anno della misericordia, infatti, il vicariato apostolico di Phnom Penh e le prefetture apostoliche di Battambang e Kompong Cham, con i loro pastori e i loro catechisti, hanno ritenuto opportuno incontrarsi per riflettere sulla potenza del perdono di Dio. Dei sette sacramenti, l’Eucarestia e la Confessione, per il fatto che nella vita del cristiano si ripetono, più degli altri concorrono a formare «quella conoscenza soprannaturale di se stessi, di se stessi in Dio, che si chiama fede». (2)
Pu-Koy fa parte di una piccola comunità cristiana che vive all’interno della zona pastorale appena affidatami dal mio vescovo Mons. Antonysami. Il villaggio di Koy, distante circa 40 km a est di Kompong Cham, oltre il fiume Mekong, si fa spazio nel mezzo di un’estesa piantagione di caucciù nella quale non è facile orientarsi. Gli alberi disposti in file regolari sembrano tutti uguali, gli incroci delle strade si confondono e la terra rossa che, bagnata dalle frequenti pioggie di stagione si attacca alle ruote, aumentano per chi non è del posto il rischio di perdersi. Il villaggio si chiama Pkah-doon, non ha ancora il favore dell’energia elettrica, ma sta cominciando a ricevere la luce di Cristo grazie a Koy e ad altre tre persone che hanno ricevuto il battesimo nella Pasqua del 2016. Parto quindi per questa nuova avventura con quattro amici. Per il momento non potrò vivere direttamente al villaggio. Loro stessi mi stanno aiutando a cercare una casa da affittare presso un mercato vicino, poi si vedrà. Fino ad oggi ho fatto solo dei sopralluoghi, ma niente più. Anzi posso dire che il primo atto formale, come sacerdote, parroco e missionario di quel villaggio, sia stato ascoltare e assolvere Koy dai suoi peccati. Certo, sapevo che era stato appena battezzato, ma non sapevo che quella sarebbe stata la sua prima confessione.
In quel giorno, il 21 ottobre, ho anche compiuto 48 anni e quando Koy è venuto a confessarsi non ho potuto non accoglierlo come un dono, anzi come una chiamata ad obbedire al vescovo che da pochi giorni mi aveva chiesto di andare dove solo la Grazia sa condurti per perdonarti. Poco prima di ascoltare la confessione di Koy, avevo chiesto a padre Luca, mio confratello, di ascoltare la mia. Anch’io volevo terminare quella tre giorni di riflessione celebrando il sacramento della riconciliazone. La fede di quel piccolo popolo convenuto mi aveva aiutano a riscoprire il sacramento come un gesto semplice, possibile. E ancor più grazioso è stato poterlo celebrare con quella buon’anima di padre Luca. Poi, una volta perdonato, ho fatto la mia parte con Pu-Koy.
Mi sento da qualche giorno come il curato di campagna descritto da G. Bernanos quando prega il buon Dio perché gli permetta di vedere il viso della sua parrocchia e di sentirne la voce. «Ho pregato bene, stamane, per la mia parrocchia, la mia povera parrocchia – racconta il curato – la mia prima ed ultima parrocchia, forse; poiché m’augurerei di morirvi. La mia parrocchia! Una frase, questa, che non si può pronunciare senza emozione – che dico! – senza uno slancio d’amore (…). So che la mia parrocchia esiste realmente, che siamo l’un dell’altra per l’eternità, che è una cellula vivente della Chiesa imperitura e non una funzione amministrativa» (3) perché in essa si possono pronunciare parole altrimenti impronunciabili «Ego te absolvo a peccatis tuis…». Dopo essere stati entrambi assolti, sia io che Koy, ce ne siamo andati – direbbe Cirillo di Alessandria – «vivi della Sua stessa vita».
C’è però una cosa che Koy ha fatto meglio di me. Il modo in cui si è confessato mi ha sorpreso perché insisteva nel racconto dei peccati commessi anni e anni fa, ben prima di incontrare Cristo e diventare cristiano. Lo esortavo a soprassedere, ad avere speranza per il futuro senza più lasciarsi comandare dal passato, ma lui insisteva per evitare che rimanesse qualcosa di non-detto. Poi, ripensando a quanto era accaduto, ho capito che Koy voleva portare la Grazia di Cristo a ristroso. Si trattava della sua prima confessione, a cinquant’anni! Per questo a Koy premeva che la potenza del perdono di Dio, almeno quella prima volta, potesse distendersi nel tempo passato «prima di Cristo» e provare in questo modo, finalmente, a ricapitolare in Lui tutte le cose della sua vita (cfr. Ef 1,10). «Ora – scrive San Paolo – noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1 Cor 2,16) e possiamo pensare Lui attraverso tutte le cose (Massimo il Confessore).
Mentre Koy mi parlava, nella sua disarmata semplicità, io sentivo «il suono umile del fieno in bocca a chi sa ruminare».
Ho percepito che la missione della Chiesa ha a che fare con la storia, con tutto il passato, il presente e il futuro di un uomo: io, Koy, e quei tre amici che hanno ricevuto il battesimo solo pochi mesi fa. Cristiani dell’ultima ora. Oh certo, potrebbero essere di più. Vorrei fossero di più. Ma allo stesso tempo mi sento già benedetto e coinvolto in un’avventura soprannaturale che mi supera e che vuole «fondere, raffinare e plasmare, con un procedimento rumoroso e incessante, la materia grezza della natura umana, quella materia così eccellente, così pericolosa, [eppure] così capace di corrispondere alle intenzioni divine» (4).
L’uomo non è definito appena dai suoi antecedenti biologici, psicologici o sociologici, ma dal mistero della creazione e della redenzione che l’avvenimento cristiano ci ha rivelato. Io come missionario ho solo queste due risorse, la creazione e la redenzione, per tentare un giudizio sul male e sul deteriorarsi di tutte le ragioni in grado di giustificare una possibile convivenza civile nella terra degli uomini. Basta un telefonino, una connessione internet, e la chiacchiera, la banalità, l’azzardo del male hanno subito il sopravvento. Bisognerà allora sempre illuminare il male con la categoria di peccato perché ogni figlio d’uomo torni a confessarlo e non rimanga solo con la sua miseria. Sappia interpretare il suo male come peccato, quindi nel suo riferimento a Dio e alla relazione con Lui. E venire perdonato. Perdonaci, Signore, quando cerchiamo affannosamente il senso della vita e dell’amore nelle superfici epidermiche delle nostre vite come quegli amanti che frugano nei loro corpi per sapere che cos’è l’amore, simili a un bambino che smonta un orologio per capire che cosa è il tempo. Perdonaci, quando la nostra «miseria e lussuria, ahimè, si cercano e si chiamano nelle tenebre come bestie affamate» (5). Mandaci piuttosto qualcuno che pronunci le parole eterne e ci liberi: «Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen».
Per questi motivi accetto di buon grado la mia nuova destinazione, che è chiamata di Cristo e della Chiesa Suo sacramento, che è missione e riconciliazione. Con Pkah-doon, altre tre piccole “parrocchie” costituiranno l’orizzonte di questi prossimi mesi e anni. Tutto qui? Si! «Tutto è qui nella riservatezza rurale (…) unico sentiero che pesto (…) Qui è l’avvenire, qui è il tempo che passa e la morte che viene, (…) nell’amore alla vita, (…) qui su questo umile percorso, umile gioia dei giorni» (6).
Quando ormai i penitenti si erano tutti confessati, mentre attendevo ancora qualche istante per la paura che la mia fretta potesse togliere ad altri l’occasione del perdono, un bambino che non conoscevo si è avvicinato e seduto sulla sedia vuota, prima occupata da Koy e dagli altri. Gli ho chiesto il nome e gli anni. Ne aveva solo tre. Forse in quei giorni di convegno mi aveva visto entrare e uscire dal luogo dell’incontro. Mi è parsa come la visita di un angelo. Che mi ha benedetto. Ha benedetto il mio essere sacerdote e missionario. Oppure forse è venuto anzi tempo a dirmi che prima o poi anche lui vorrà sedersi su quella sedia e attendere il perdono di Dio. Già da piccoli dovremmo sussurrare loro che capire è patire, e che amare e perdonare vanno insieme. Per questo ogni vera actio in Dio è passio.
A presto,
padre Alberto
1. R. DAPUNT, La terra più del paradiso, Torino 2008, 13.
2. G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Milano 1998, 107.
3. Ibid., 25-26.
4. J. H. NEWMAN, Apologia pro vita sua, in Opere, Torino 1989, 373.
5. G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, 46.
6. R. DAPUNT, La terra più del paradiso, 8.