Missionario del Pime in Thailandia dal 1978, padre Adriano Pelosin segue, da più di trent’anni, su incarico della Conferenza episcopale, un istituto missionario locale che oggi ha propri sacerdoti anche in Cambogia, Laos e a Taiwan
Missionario al servizio di altri giovani missionari. Oltre che parroco in prima linea, attualmente a San Marco, tra le baraccopoli di Pathum Thani nell’estrema periferia di Bangkok. È la vocazione che padre Adriano Pelosin, missionario del Pime originario di Loreggia (provincia di Padova, ma diocesi di Treviso), vive ormai dal 1978 in Thailandia. Ma dopo i primi anni trascorsi a Lampang, tra le tribù dei monti nel Nord del Paese, dalla fine degli anni Ottanta sta svolgendo un servizio prezioso non solo per la Chiesa thailandese: ha infatti seguito la nascita dell’Istituto missionario thailandese, che oggi conta 20 propri sacerdoti di cui padre Pelosin è tuttora il superiore.
«Nel 1987 ero in Italia per curarmi dopo un infarto – racconta – e mi è venuta un’ispirazione. Mi sono detto: mi sono ammalato correndo troppo da un villaggio all’altro, mentre in Thailandia ci sono 500 sacerdoti locali ma nessun missionario. Così, ispirandomi all’esperienza del Pime, ho iniziato a pensare a un istituto locale. E quando sono tornato in Thailandia ho scoperto che anche la Conferenza episcopale aveva in mente la stessa cosa».
I primi due sacerdoti sono stati ordinati nel 1990, anno cui si fa risalire la nascita ufficiale dell’istituto missionario thailandese. «Li abbiamo inviati nelle aree del Nord della Thailandia – racconta padre Adriano – dove vivono le popolazioni tribali tra le quali fino a quel momento nessun sacerdote thailandese aveva mai svolto il proprio ministero, c’erano stati solo missionari stranieri come noi padri del Pime. Insieme a loro ho chiesto che partissero anche alcune suore per aiutarli e alcuni ordini religiosi femminili locali hanno messo a disposizione delle religiose. Poi è stata la volta della Cambogia dove proprio in quegli anni padre Toni Vendramin era riuscito a entrare con le suore di Madre Teresa, ma c’era una Chiesa locale da ricostruire da zero. Con l’allora vicario apostolico monsignor Yves Ramousse abbiamo avviato una presenza a Phnom Penh: oggi sono quattro i padri thailandesi del nostro istituto che svolgono il loro ministero là, mentre una congregazione di suore thailandesi è riuscita a far rinascere la propria comunità là e adesso ha anche otto suore cambogiane».
Dal 2017 è partita anche una terza missione nel vicariato apostolico di Savannakhet in Laos, un’altra terra rimasta senza preti diocesani dopo la rivoluzione comunista, in una zona dove erano stati presenti gli Oblati di Maria Immacolata italiani che vissero l’esperienza del martirio. «Il governo comunista ancora non permette la presenza ufficiale di missionari stranieri ma il vicariato ha la sua sede a Thakhet che si trova subito al di là del Mekong, che segna il confine con la Thailandia. Così questi due nostri missionari thailandesi sono lì a Thakhek e ogni mese devono passare il fiume, uscire e rientrare con un nuovo visto turistico. In più poco prima di chiudere le frontiere per la pandemia il Laos ha chiesto a tutti quanti avevano un visto mensile di uscire dal Paese. Per due anni non sono più potuti tornare. A quel punto uno l’ho mandato a fare il parroco in Thailandia, l’altro ha studiato teologia pastorale a Padova con la prospettiva di rientrare in Laos come rettore del seminario maggiore a Thakhek. Adesso, però, là non c’è nessuno».
Infine Taiwan, l’ultima presenza avviata nel settembre 2017. «Tre nostri missionari sono nella diocesi di Hsinchu su invito del vescovo locale. Avevamo conosciuto questa realtà perché alcuni volontari della diocesi venivano a insegnare cinese gratis ai nostri bambini. Il vescovo ci ha chiesto di andare là per prenderci cura in maniera particolare dei migranti: prima della pandemia c’erano 200 mila thailandesi in quella diocesi; adesso sono diminuiti, sono intorno ai 70 mila, ma alla domenica a Messa le chiese sono piene di cattolici filippini e vietnamiti, ormai più numerosi dei cinesi».
Sono loro oggi a ravvivare questa Chiesa locale: «al catechismo la maggior parte dei ragazzi ormai sono figli di donne cattoliche vietnamite e uomini taiwanesi non cattolici. I nostri missionari sono lì ad accompagnare questo cammino».
Missioni aperte in contesti diversi, dunque. Ma soprattutto una strada aperta per una Chiesa che fino a trent’anni fa aveva solo ricevuto missionari: «Queste presenze – commenta padre Pelosin – hanno creato una nuova coscienza nella Chiesa thailandese: adesso anche loro sono missionari. Si è creato un movimento: prima del Covid erano già iniziati anche i viaggi di laici che andavano a trovare i missionari thailandesi in Cambogia, in Laos, a Taiwan. Inoltre un sacerdote dell’istituto missionario che era in Cambogia è diventato il direttore delle Pontificie Opere Missionarie della Thailandia e sta creando occasioni di animazione missionaria a tutti i livelli».
La nuova frontiera è anche un secondo istituto missionario, formato da laici, che sta muovendo i primi passi. «Nelle prime missioni avevamo preti, suore e anche laici inviati insieme – ricorda padre Pelosin -. Poi, però, il padre Jean Dantonel dei Mep, che ha guidato insieme a me l’inizio del cammino, ha preferito concentrarsi sui sacerdoti. Così quest’anno abbiamo chiesto all’arcivescovo di Bangkok di approvare le costituzioni di un nuovo istituto rivolto specificamente ai laici. L’idea è che assumano il carisma della missione tra i più poveri dei non cristiani. Abbiamo cominciato dalla nostra chiesa di San Marco: andiamo nelle baraccopoli con una decina di questi missionari che lavorano a tempo pieno. Ma ci sono altri che condividono questa esperienza anche proseguendo la loro professione a casa loro». Intanto con gli anni la formazione dei sacerdoti dell’Istituto missionario thailandese è cambiata: adesso la missione è un’esperienza che viene vissuta dai giovani seminaristi già prima di cominciare gli studi teologici e filosofici. «Finite le superiori vengono un anno con me in parrocchia – spiega il superiore – per imparare a stare insieme, pregare e servire i più poveri nelle baraccopoli. Dopo vanno nelle nostre missioni al Nord o in Cambogia a vivere per un anno con i nostri missionari. Infine durante il terzo anno studiano l’inglese all’università che i gesuiti hanno aperto nel Nord della Thailandia per i tribali. Solo dopo questo triennio vanno al seminario regionale di Bangkok, ma all’interno del complesso la Conferenza episcopale ci ha dato una grande casa dove fanno vita di comunità tra di loro».
Attualmente sono una dozzina quelli in formazione tra tutti i diversi livelli. «Alcuni vengono da un villaggio che avevo aiutato 40 anni fa, quando ero ancora a Lampang – racconta il missionario del Pime -. Sono lahu di una comunità che era scappata dal Laos durante la rivoluzione comunista. Mi avevano cercato loro e ci ero andato, pregando tra i loro malati. Ho trovato una grande fede e il Signore ha fatto grandi cose là. Poi ci sono anche due akha e un karen: mentre prima erano tutti cinesi o vietnamiti, adesso stanno arrivando vocazioni anche dalle tribù del nord».
Ma trent’anni vissuti accompagnando i nuovi missionari thailandesi come hanno cambiato la vocazione di un missionario italiano? «Ho cercato di non giudicare, di non aspettarmi troppo – risponde padre Pelosin -. Ho lasciato che le cose si sviluppassero secondo la loro natura, senza imporre quello che volevo io. Anche se mi hanno fatto pure soffrire: qualcuno mi ha imbrogliato, ci sono state delusioni, tensioni, mi è venuto anche un altro infarto… A un certo punto sembrava che tutto andasse in fumo. Ai seminaristi ho detto: se vi scandalizzate andate via. Abbiamo ragionato su come ripensarci dopo 30 anni, perché un istituto non va avanti da solo, bisogna essere coscienti che come siamo nati così possiamo anche morire. Ma ci sono anche tante gioie come le nuove ordinazioni, presto avremo due nuovi nostri sacerdoti che sono già stati destinati alla Cambogia. E poi i quattro giovani missionari al Nord, che stanno lavorando bene, aiutandosi molto tra loro». Con fatica ma cresce anche in Thailandia il nuovo volto della missione. Al servizio di tutti.