Missionario del Pime, padre Alfredo Cremonesi fu ucciso nel 1953 nell’allora Birmania. Testimone del Vangelo nel cuore della guerra, verrà proclamato beato sabato 19 ottobre a Crema nel cuore del Mese Missionario Straordinario in una celebrazione presieduta in cattedrale dal cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione per le Cause dei santi
Volle restare con loro per portare pace in un angolo della Birmania di nuovo ferito dalla guerra. E a più di sessant’anni di distanza dalla sua drammatica morte il 7 febbraio 1953, i cariani – la popolazione tribale a cui ha dedicato la vita – guardano al luogo del suo martirio (nella foto in apertura) come a un seme prezioso. Si può riassumere così la vita di padre Alfredo Cremonesi, missionario del Pime per quasi trent’anni sui monti dell’attuale Myanmar, che il 19 ottobre verrà proclamato beato a Crema, la sua diocesi d’origine (vedi box sotto).
Un evento nel cuore del Mese missionario straordinario che andrà ulteriormente a riconfermare il legame tra il Pime e la Chiesa locale di questo Paese dell’Asia. Ma la figura di padre Cremonesi è anche una testimonianza fortissima sulla pienezza di una vita interamente donata alla missione ad gentes. Era nato a Ripalta Guerina (Cremona) nel 1902; entrato giovanissimo nel seminario diocesano la sua vocazione all’annuncio di Gesù ai popoli lontani maturò proprio negli anni della Maximum Illud, l’enciclica missionaria di Benedetto XV, di cui ricorre quest’anno il centenario. Non lo frenò nemmeno una grave malattia, durante la quale si affidò a santa Teresa del Bambin Gesù, la patrona delle missioni. «Vorrei essere già prete – scriveva padre Alfredo nel 1922, una volta guarito -, aver mille bocche per predicare giorno e notte, vorrei avere mille mani per mettere in piedi tanti giornali sui quali gridare la novella buona che rigenera e risana. Ma questo non è tutto. Mi fanno un’immensa compassione quei poveri infedeli dell’Asia, dell’Africa o dell’Oceania, che non hanno un altare ed un focolare. E allora non mi basta l’Italia, penso che l’Italia abbia già molte braccia che la possono salvare, mentre laggiù la messe è molta ma gli operai sono pochi».
Poche settimane dopo arrivò l’ingresso nel Seminario Lombardo per le Missioni Estere di Milano: ordinato sacerdote nell’ottobre 1924, l’anno successivo sarebbe arrivato il momento della partenza per la Birmania. Momento sul quale padre Alfredo ebbe subito un’idea nettissima: sarebbe stato per sempre; e anche nei momenti più difficili della sua vita di un ritorno in Italia non volle mai sentir nemmeno parlare.
In Birmania portò tutto il suo ardore di giovane missionario. Destinato alla missione di Donokù, nella diocesi di Toungoo, girava i villaggi con la sua bicicletta, andando anche tra i non cristiani. Per questo i suoi confratelli lo chiamavano «moto perpetuo». Sapeva sognare in grande padre Cremonesi: in una lettera a padre Manna del 1926 racconta di aver chiesto al direttore generale della Fiat in regalo un aeroplano «prospettandogli gli immensi vantaggi reclamistici di così inaudita generosità». Un’altra sua dote preziosa era la capacità di narrare: oltre alle sue lettere restano i racconti sulla situazione del Paese che scriveva per Le Missioni Cattoliche, come si chiamava allora la nostra rivista. Del resto di passaggi delicati ne attraversò tanti: allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale in una colonia inglese come la Birmania i missionari del Pime, italiani, si ritrovarono nemici.
Solo a quelli giunti prima del 1931 – circa la metà – fu permesso di restare; per questo fu trasferito più a nord, nella missione di Mushò rimasta sguarnita. Alle fatiche di dover far fronte ad ancora più comunità si aggiunsero presto le sofferenze e i pericoli della guerra, con l’invasione giapponese del 1942. «Fummo derubati di tutto – scrisse -. Non ci rimase nemmeno una gallina».
Alla fine della guerra a Donokù dovette ricominciare letteralmente da zero. Ma quella prova non sarebbe stata l’ultima: furono infatti gli orrori della «guerra cariana» il volto più esigente della missione di padre Cremonesi. L’indipendenza della Birmania, ottenuta dagli inglesi nel 1948, venne scossa fin dall’inizio dal malcontento delle minoranze etniche che videro subito naufragare le promesse di federalismo in uno Stato che tendeva a birmanizzare tutte le istituzioni. Fu in questo contesto che la Karenni National Union (Knu), il principale partito dei cariani, scelse la strada della lotta armata per arrivare a un proprio Stato autonomo. Scelta disastrosa che assunse anche una dolorosa connotazione religiosa: i vertici della Knu erano cristiani battisti e guardarono con sempre maggiore ostilità alle comunità cattoliche – minoranza nella minoranza – che avrebbero voluto la pace con i buddhisti birmani. Padre Alfredo non esitò a definirla «una guerra ispirata dal demonio» vedendo crescere solo la miseria tra i cariani.
Nel maggio 1950 nel villaggio di Shadaw si arrivò all’uccisione dei primi missionari del Pime martiri in Birmania: il beato Mario Vergara e padre Pietro Galastri, assassinati insieme al catechista locale Isidoro Ngei Ko Lat (anche lui proclamato beato nel 2014) proprio dai ribelli cariani. Li accusarono falsamente di essere delle spie al servizio dell’esercito birmano che stava avanzando contro di loro.
A quel punto padre Cremonesi sapeva di essere il prossimo nella lista; lui e la sua gente di Donokù. Così una notte dell’agosto di quell’anno, quando sentirono che ormai i ribelli stavano arrivando, decisero di fuggire tutti nella foresta: le milizie poterono così accanirsi solo contro le strutture della missione.
Fu il momento più duro per padre Alfredo, costretto a rifugiarsi a Toungoo, in esilio insieme a buona parte della sua comunità, sfollata in un campo profughi allestito dal governo. Mesi di sofferenza profonda. «Mi accontento di poco: di poter ricominciare la mia povera vita di missionario», confidava in una lettera. Il suo pensiero restò sempre fisso a chi era rimasto nelle foreste intorno a Donokù. «Lei non può davvero immaginare – scriveva al vescovo di Toungoo, monsignor Alfredo Lanfranconi nel febbraio 1951 – come sia aumentata in me l’ansia, la brama, l’agonia che mi è venuta addosso di ritornare presto al mio villaggio a raccogliere la mia povera gente dispersa. Mi pare di sentire fisicamente il dolore della mia povera gente ed il loro cruccio e rimprovero per averla io abbandonata. Quindi mi può perdonare se penso magari di fare delle imprudenze. Dio vede e Dio provvederà».
Durò per un anno e mezzo quell’esilio doloroso. Fino a quando – nel marzo 1952, a pochi giorni dalla Pasqua – la tensione sembrò cominciare ad allentarsi. I ribelli, che ormai avevano capito di non poter sconfiggere l’esercito birmano, fecero sapere di non essere più contrari al ritorno del missionario a Donokù. Probabilmente speravano potesse essere d’aiuto al raggiungimento di un armistizio onorevole. Padre Cremonesi non se lo fece dire due volte: si precipitò al villaggio e tra i suoi abitanti dispersi nelle case di fortuna tirate su nella foresta. «Escono fuori dai loro nascondigli e, a poco a poco, si radunano ancora attorno a me, come fanno i pulcini con la chioccia. Non le dico quanto sono contento di essere tornato – scrisse a monsignor Lanfranconi -. Se il Signore mi aiuta, piuttosto morire di qualunque morte che un esilio come il mio».
Era comunque ben consapevole dei rischi: «La guerra non è ancora finita e io sono qui in terra di ribelli, proprio alla frontiera. I soldati ribelli che difendono il fronte sono dietro di me, così se capita un attacco sono il primo io a essere preso». Fu proprio quanto capitò: all’inizio del 1953 la tensione ricominciò a salire, il 7 febbraio una razzia compiuta dai ribelli in un villaggio e alcuni morti dell’esercito nella rappresaglia riaccesero la miccia. La rabbia dei soldati birmani esplose, però, contro i più deboli: i cariani di Donokù accusati di collaborazionismo. Ancora una volta padre Cremonesi si spese in prima persona per riportare la pace, ma finì crivellato di colpi. A differenza di padre Vergara e padre Galastri non fu colpito dai ribelli, ma dall’esercito regolare.
«Noi missionari non siamo davvero nulla – aveva scritto padre Alfredo in un’altra delle sue lettere -. Il nostro è il più misterioso e meraviglioso lavoro che sia dato all’uomo non di compiere, ma di vedere: scorgere delle anime che si convertono». Il mistero che a tanti anni di distanza continua a compiersi sulle montagne del Myanmar.
Le celebrazioni a Crema
La beatificazione di padre Luigi Cremonesi si terrà a Crema, la sua diocesi di origine, sabato 19 ottobre, alle 15.30 in cattedrale. Rito presieduto a nome del Papa dal cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi. Sarà presente il vescovo di Taungngu, in Myanmar, con una delegazione di preti della diocesi. Sarà il momento culminante di un triduo che inizierà già giovedì 17 nel segno dell’attualità della missione e delle sue sofferenze: dal 17 settembre 2018, infatti, non si hanno notizie di padre Luigi Maccalli, missionario cremasco della Società delle Missioni Africane rapito in Niger. Giovedì si terrà dunque una veglia di preghiera che unirà le figure di Cremonesi e Maccalli. Venerdì 18, invece, al teatro San Domenico in programma una rappresentazione sulla vita di padre Cremonesi.