L’epopea dei missionari del Pime, la Chiesa e la porta santa nel Myanmar orientale. E se «beyond nature» era la sfida dei primi missionari che si spinsero oltre il fiume Salween, superando la paura e gli ostacoli naturali in aree ancora impervie e mai esplorate, così ora vi sono altrettante sfide nel superare le tensioni, la sete di potere e di denaro che condizionano i rapporti tra le etnie.
Proverò ad accostare tre momenti di questo breve ma intenso viaggio in Myanmar: la visita alle tombe di due missionari fratelli di sangue, Antonio ed Eliodoro Farronato, quest’ultimo morto martire nel 1955, la chiusura del giubileo della misericordia, e l’ordinazione diaconale di tre giovani presso la cattedrale di Kentung, Shan State, Myanmar orientale. Sono tre eventi che si implicano perché tutti originati dall’epopea dei missionari del Pime in questo grande e affascinante, ricco e bistrattato Paese del sud-est asiatico. Ad un anno dalla vittoria elettorale del partito di opposizione ispirato e guidato da Aung San Suu Kyi e a 25 anni da quando ricevette in contumacia il Premio Nobel per la Pace mentre era detenuta in patria per la sua militanza democratica, il Paese sta sensibilmente cambiando. E la Chiesa non si tira indietro!
I primi missionari a raggiungere Kentung, nel mitico territorio al di là del fiume Salween, dopo ripetuti tentativi sempre falliti, furono i padri Erminio Bonetta, Leone Lombardini e Francesco Portaluppi, nel 1912. Esplorarono il territorio, fondarono la Chiesa e si spinsero in zone ancora più remote. Dopo di loro più di 40 missionari furono inviati in quest’area abitata prevalentemente da gruppi con cultura e lingue proprie: lahu, akha, shan, birmani e wa sono tra le etnie maggioritarie. Per citarne uno, forse tra i più noti, il grande beato Clemente Vismara che spese in queste terre 66 anni della sua vita.
Nel mio viaggio ho incontrato tutti i 37 sacerdoti della diocesi radunatesi a Kentung per l’annuale ritiro. A più di 100 anni dall’arrivo dei primi missionari, i fedeli cattolici sono oggi circa 55.000 distribuiti su 20 parrocchie, formate da una miriade di villaggi. Molti dei sacerdoti incontrati visitano regolarmente decine di villaggi, parlano almeno tre delle lingue maggioritarie e, come i primi missionari, sono stati e sono veri e propri pionieri della fede. Penso a padre Achille Htun Shwe, classe 1932, ordinato nel 1962 e primo prete dell’etnia Shan. O a padre Pasquale Sai Yee, primo e unico prete dell’etnia Wa, famosa, mi raccontano, perché erano soliti tagliare le teste dei loro nemici e utilizzarle per propiziare gli spiriti. Riguardo a questo gruppo etnico, l’area in cui vive, le tensioni in atto e gli interessi economici dietro buona parte dei conflitti, vale la pena leggere l’articolo pubblicato alcuni giorni fa sul sito della BBC.[1]
Mentre predicavo il ritiro spesso un elicottero militare proveniente da quelle zone sorvolava Kentung lasciandoci presagire l’inasprirsi delle tensioni tra Wa e truppe governative. Il lavoro di riconciliazione in atto tra le etnie è la più grande sfida che Aung San Suu Kyi si trova ad affrontare, ben più delle minacce esterne provenienti dalla Cina, o dell’ancora cronica mancanza di una cultura democratica e di infrastrutture adeguate alla convivenza civile. In questo senso la Signora trova nella Chiesa un grande appoggio perché i preti locali, lo ripeto, parlando almeno tre delle lingue maggioritarie, svolgono un lavoro prezioso e unico, educativo e sociale, in vista di una possibile riconciliazione.
Se «beyond nature» era la sfida dei primi missionari che si spinsero oltre il fiume Salween, superando la paura e gli ostacoli naturali in aree ancora impervie e mai esplorate, così ora vi sono altrettante sfide nel superare le tensioni, la sete di potere e di denaro che condizionano i rapporti tra le etnie. Anzi, padre Pasquale, che parla fluentemente 7 delle lingue più diffuse nell’area, offre continuamente la sua presenza e mediazione nel portare la parola del Vangelo «beyond nature», appunto! Oltre quella troppo naturale, istintuale e ingovernabile sete di potere che abita nel cuore dell’uomo. L’attuale vescovo della diocesi, mons. Peter Louis Caku, succeduto a mons. Abraham Than, non ha dubbi: «continueremo a lavorare dal basso, con la gente, le loro comunità perché attraverso l’impatto con il Vangelo riscoprano il valore della persona e la possibilità di camminare oltre le tensioni e vivere in pace», mi racconta in un colloquio privato per spiegarmi l’intenzione pastorale di intensificare il lavoro e la presenza tra le comunità di base. Sempre i quei giorni di ritiro ho visto molti laici, membri di associazioni di fedeli, venire e partecipare alla vita della Chiesa. Amano i loro preti e non li lasciano soli.
Alla fine del ritiro, sabato 19 novembre, quattro sacerdoti, tutti originari di Mong Yong, a quattro ore di strada da Kentung verso il confine cinese, mi hanno accompagnato a visitare le tombe dei fratelli Antonio e Eliodoro Farronato, missionari del Pime originari di Romano d’Ezzelino, in provincia di Padova. In Mong Yong i fratelli Farronato hanno speso la loro vita e ora riposano in pace. I miei quattro compagni di viaggi volevano che vedessi i luoghi della loro epopea missionaria. Il primo, Antonio, arriva in Myanmar, chiamata allora Birmania, nel 1926. Nel 1929 viene mandato a Mong Yong e comincia il suo lavoro di umile presenza in un’area raggiungibile solo a piedi e dopo giorni di cammino. Spesso manda lettere a casa, al fratello Eliodoro per invitarlo, «non verresti a farmi compagnia? Che fai in Italia?», gli scrive. Qui – continua Antonio – «studio una lingua dopo l’altra, invecchio senza accorgermi e morirò senza rimorsi». In realtà Antonio morirá nel 1931, dopo solo 5 anni di vita missionaria, stroncato da una febbre tropicale. Eliodoro che, ancora in Italia, apprende la notizia non si lascia scoraggiare anzi, la morte del fratello suona in lui come una chiamata definitiva alla missione per andare e continuare l’opera di Antonio. Così nel 1935, all’età di 23 anni arriva in Birmania. Lavorerà per 20 anni in diverse parrocchie, lavorerà ad una delle prime traduzioni di preghiere e canti in lingua lahu e akha, fino a morire ucciso da ex-militari cinesi nel 1955. Ho visitato i luoghi del martirio e le tombe dei due fratelli che, non avendo potuto lavorare insieme su questa terra, sono ora insieme in cielo. I quattro sacerdoti che mi accompagnavano, tutti originari di Mong Yong ci tenevano a dirmi che «Dio benedice il sacrificio dei missionari e ne raddoppia l’efficacia, da due a quattro!».
Dopo aver celebrato l’Eucaristia sulle tombe dei due fratelli e benedetto i fedeli presenti, siamo tornati a Kentung dove ieri, domenica 20 novembre, con una grande celebrazione a cui hanno partecipato più di 1000 fedeli, mons. Peter Louis Caku ha chiuso la Porta Santa e ha ordinato tre nuovi diaconi, candidati al sacerdozio. Sono i giovani Joachim Chit Oo, Ascensio Aung Thu Ya e Dominic Wun Kyaw Htwe, pronti e determinati a servire la Chiesa. Nell’omelia il vescovo ha raccomandato agli ordinandi e ai fedeli tutti di «abbracciare Cristo» e se «l’attuale secolarismo chiude le porte, voi dovete aprirle, questo vi chiede Cristo».
La vita della Chiesa di Kentung è stata benedetta negli anni da molti missionari. Penso a mons. Ferdinando Guercilena, primo vescovo della diocesi, a padre Cesare Colombo apostolo dei lebbrosi, e a diversi altri martiri tra i quali il primo prete locale Stefano Vong (1913-1961). Ad essi si aggiungono le suore della Riparazione, quelle di Maria Bambina e di San Francesco Saverio, ma sarebbe impossibile ricordare tutti e tutto. La presenza di nuove vocazioni e di un laicato numeroso e impegnato, incoraggia, apre strade, da speranza. E se allora come oggi – scrive Peguy – «c’era la cattiveria dei tempi anche sotto i Romani, (…) Gesù non se ne va affatto. Non si rifugia affatto dietro alla cattiveria dei tempi. (…) Egli taglia corto. Oh in modo molto semplice! Facendo il cristianesimo». Proprio là, «beyond nature», oltre il fiume Salween.
[1] Cfr. http://www.bbc.com/news/world-asia-37996473