Non strutture, ma minuscole comunità, disperse nell’immensità del deserto algerino. È la Chiesa del Sahara, dove la fede di nutre di essenzialità e di dialogo con l’islam. Parola di Claude Rault, vescovo di Laghouat–Ghardaïa.
Usa spesso l’immagine della carovana per descrivere la sua piccola Chiesa dispersa nel deserto del Sahara. Ma è tutto il suo parlare a essere intriso di metafore e di spiritualità del deserto. Mons. Claude Rault (che aprirà il ciclo di incontri dell’Ottobre missionario al Pime di Milano mercoledì 7 ottobre) è il vescovo della più grande diocesi al mondo, quella di Laghouat–Ghardaïa, la diocesi del Sahara, dove è presente anche una comunità del Pime. Numericamente, però, è una delle più piccole, con una manciata di cristiani, dispersi in una vastità di sabbia e di islam. «Fare Chiesa qui nel deserto – dice -; significa aggrapparsi all’essenziale della nostra fede ed essere uniti nella testimonianza, anche se viviamo negli angoli più remoti; testimoni di una Chiesa al servizio del Regno».
Mons. Rault, lei ha passato gran parte della sua vita nel deserto. Qual è la sua relazione personale con questo spazio immenso e apparentemente così inospitale?
Un giorno, un amico giardiniere mi ha offerto dei datteri colti dalla sua palma. Gli ho chiesto se non avesse paura di pungersi con le sue grosse spine. Mi ha risposto: «La palma non punge. Sei tu che ti pungi sulla palma se non sei in pace con te stesso». Vale lo stesso per il deserto. Non è pericoloso o inospitale in sé. Ma non ci si può avventurare alla cieca; per capirlo, occorre avere la pace del cuore! Il deserto è uno spazio accogliente, ma non si può barare con lui. L’intimità con il deserto la devo a coloro che vi spendono la propria esistenza e che, a forza di frequentarlo, sono stati plasmati a sua immagine. Sono loro che mi aiutano a pormi in una relazione di umiltà e pace.
Il deserto a contribuito anche a “modellare” la sua fede ?
Questo spazio rappresenta una bella e grande scuola di fede per noi cristiani. Mi ha insegnato a spogliarmi di me stesso, mi ha insegnato l’umiltà. Ci si sente piccoli in questa immensità e molto rapidamente si può sentire l’infinito. Non è propriamente nel deserto che scopro Dio, ma nel profondo di me stesso: c’è un grande deserto in me ed è in questo spazio che posso incontrare Dio. Un Dio grande e, al tempo stesso, così piccolo che può abitare tutto intero questo mio spazio interiore.
Ci sono dei luoghi che l’hanno particolarmente ispirata o “maestri” che l’hanno nutrita?
Due regioni mi rinviano a questo spazio interiore: il deserto dell’Hoggar, aspro in modo molto mascolino. E il deserto del grande Grand Erg, uno spazio di dune, morbido come una presenza femminile. Dio ha creato l’uomo a sua immagine e queste due immagini, io le ritrovo nel deserto. Naturalmente, ci sono uomini e donne che sono dei veri “maestri” e che sono degli esempi per la nostra fede. Spesso sono persone semplici, che hanno in bocca parole solo per benedire Dio: El hamdu liLlah! Dio sia Benedetto! Essi formano il popolo delle Beatitudini, dei “poveri di Dio” e sono numerosi. In paradiso, essi ci precedono!
Lei è il vescovo della diocesi più vasta al mondo. Com’è la vita dei cristiani in questa immensità di sabbia e di islam?
Papa Giovanni Paolo II, ricevendo i vescovi dell’Algeria, aveva detto al mio predecessore: «Ah, il Sahara! Sabbia e musulmani!». I musulmani mi hanno guidato al senso della trascendenza e della grandezza di Dio. L’espressione “Allah Akbar” (“Dio è il più grande”) è spesso usata contro il suo significato più profondo. Vuol dire che nulla è al sopra di Dio. Coloro che osano uccidere, invocandolo, prendono il suo posto e lo tradiscono. La nostra vita cristiana si inserisce nel contesto di una religione della infinita trascendenza di Dio. L’islam, al fondo del suo messaggio, può aiutarci trovare la vera grandezza di Dio. Per noi cristiani, questa grandezza si è incarnata, ha preso posto nella nostra umanità con Gesù. Dio si mostra “il più grande”, facendosi il più vicino a noi. In questo modo, ci fa partecipi della sua grandezza.
Questo enorme “vuoto” che è il Sahara, in realtà è sempre di più attraversato da persone in cerca di una vita migliore, che spesso vi trovano la morte. L’accompagnamento di questi migranti fa parte anche del vostro ministero?
È una vera tragedia. Bisogna davvero essere disperati per lanciarsi in questa avventura che troppo spesso finisce con la morte! Morte nel deserto o morte durante la traversata in mare. Morte anche dentro di sé, poiché spesso tutto finisce con un fallimento. La nostra piccola Chiesa non ha molte risorse, ma prestiamo particolare attenzione a queste persone almeno su due punti essenziali. In primo luogo, l’accoglienza alle nostre celebrazioni per i cristiani che desiderano venire a pregare nella nostra comunità. Questo è il caso soprattutto di Tamanrasset: la loro partecipazione ha trasformato la nostra piccola assemblea. All’interno del piccolo spazio della parrocchia, si sentono “loro stessi”, possono pregare, confidarsi, danzare, tutte cose non possono fare nei loro “ghetti”. E poi, “l’accoglienza del Samaritano”, di tutti coloro che sono malati, feriti o in uno stato di sofferenza. Purtroppo non possiamo fare di più a causa della scarsità delle nostre risorse umane.
Recentemente c’è stata una recrudescenza del conflitto nella regione di Ghardaïa tra le popolazioni autoctone, i mozabiti, e gli arabi. Lei ha scritto due lettere per spronare alla riconciliazione e all’armonia. La voce dei cristiani, che rappresentano una piccolissima minoranza, viene ascoltata?
È un conflitto antico come quello di Caino e Abel! Uno lavorava la terra, l’altro era pastore. Siamo di fronte alla difficoltà di due popolazioni di vivere insieme sulla stessa terra. Le ragioni di questo conflitto sono miste: etniche (berberi-arabi), economiche (nomadi- sedentari), religiose (ibaditi- malikiti). Si tratta di una situazione complessa, ma che può essere vissuta in armonia. Quel che noi cristiani possiamo fare è stare vicino a tutti i nostri amici, chiunque essi siano, soffrire con chi soffre, essere ovunque possiamo farci artigiani di pace. La nostra comunità non è coinvolta in questi scontri ed è rispettata. Anche se di rado possiamo esprimerci pubblicamente, possiamo mostrare che siamo fratelli e sorelle in umanità e che Dio non fa eccezione di persone.
Si ha l’impressione che il deserto sia uno dei luoghi più inospitali sulla terra, ma lei racconta spesso episodi molto commoventi di incontro e ospitalità.
L’ho sperimentato in diverse occasioni. Penso, ad esempio, a Brahim, un amico che mi ha dissetato mentre era in pieno Ramadan e aveva dovuto fare un lungo viaggio a piedi. Ridendo, mi ha detto; “Bevi tu al mio posto!» Povero, padre di una 7 figli, un giorno ha ucciso un capretto di un minuscolo gregge di capre 5 o 6 capre, per dare il benvenuto a mia madre che era venuta con me a fargli visita. L’ospitalità è sacra, appartiene all’ambito del divino. Una frase araba dice: «L’ospite è l’ospite di Dio!» Brahim mi ha insegnato durante le serate estive come ci si orienta nel deserto: con le stelle: «Colui che non conosce le stelle non può camminare nella notte», diceva. Penso a lui quando cerco il senso della mia vita: bisogna alzare lo sguardo e guardare le stelle interiori che ci indicano la direzione da prendere.
Qual è la forma privilegiata del dialogo islamo-cristiano nel deserto?
È innanzitutto quella della convivialità. Vivere con l’altro e accoglierlo nella sua differenza, nel rispetto di ciò che è, ed essere accolti a nostra volta; è questo l’inizio di un lungo viaggio che ci porta alla condivisione fraterna e a scambi più profondi. Non c’è vero dialogo senza la solida base della convivialità e del rispetto reciproco!
Lo scorso marzo, è tornato a riunirsi a Tibhirine – per la prima da quando furono uccisi i monaci nel 1996 – il gruppo di dialogo interreligioso “Ribât es-Salâm” (“Vincolo della pace”) che lei stesso aveva contribuito a fondare insieme al priore del monastero, Christian de Chergé. Si tratta di un’altra possibilità di dialogo? In che termini ?
Il “Ribât es-Salâm” non mai ha cessato di esistere sin dalla sua creazione nel 1979. È un modo di vivere il nostro rapporto spirituale con i musulmani e di condividere con loro un cammino da viaggiatori alla ricerca di Dio, senza pretendere di possedere la verità, ma nella convinzione che è lei che ci possiede.
Per concludere, qual è il senso di questa piccola Chiesa del Sahara, con tante comunità disperse a migliaia di chilometri l’una dall’altra?
Credo che la presenza di una Chiesa, anche se fatta di sole due o tre persone riunite in nome di Gesù, sia fondamentale sia per l’islam che per la Chiesa stessa. La nostra presenza cristiana non è finalizzata in primo luogo a crescere in numero, ma per servire il Regno di Dio che è più grande di essa. In un contesto musulmano, impariamo a “vedere” il Regno di Dio presente nei cuori e stiamo lavorando per la sua crescita con tutti le persone di buona volontà, il popolo delle Beatitudini. E nell’Eucaristia cogliamo ciò che cresce di questo Regno per offrirlo e dargli una dimensione di eternità. Tutto ciò che si vive nell’amore è eterno.