AL DI LA’ DEL MEKONG
La nostra solitudine, nella Chiesa

La nostra solitudine, nella Chiesa

In questi giorni trascorsi con gli altri preti della nostra prefettura apostolica di Kompong Cham, pregando insieme e confessandoci gli uni gli altri, mi è parso evidente che la Chiesa è la prima risposta alla sete di comunione che ciascuno si porta dentro


«Vetro freddo, come ti introduci
tra me stessa e me». Sylvia Plath

Scrivo dopo aver percorso i circa 450 chilometri di strada che separano la provincia cambogiana di Ratanakiri, ad un passo dai confini con il Laos e il Vietnam, da Kompong Cham, sede della nostra Prefettura Apostolica, di ritorno dal nostro annuale ritiro spirituale. Quest’anno abbiamo voluto viverlo lassù, in una delle comunità più piccole e remote della vasta Prefettura Apostolica. Cartina alla mano, la Prefettura si estende nell’area geografica compresa fra il tratto cambogiano del fiume Mekong a ovest, il confine con il Laos a nord e il confine con il Vietnam a est. I più anziani forse ricordano il famoso sentiero di Ho-Chi-Minh. Non uno, migliaia! Tante erano le piste che consentivano di trasportare le armi dal Vietnam del nord al Vietnam del sud, durante quell’inutile guerra che gli Stati Uniti persero rovinosamente. Ebbene, la nostra Prefettura coincide con tutta quell’area, a tratti impervia e ancora isolata.

Dunque, abbiamo trascorso lassù cinque giorni per pregare e condividere il nostro vissuto spirituale. Eravamo in quattordici preti (tanti siamo!), clero locale e missionario, di sei diverse nazionalità, compreso il nostro ordinario, mons. Bruno Cosme, delle Missioni Estere di Parigi. Mi è parso evidente in questi giorni trascorsi celebrando insieme l’Eucarestia, ascoltando la Parola, adorando quotidianamente il Santissimo Sacramento e confessandoci gli uni gli altri, la sera del giovedì, che la Chiesa, in questo caso il nostro presbiterio, è la prima risposta alla sete di comunione che ciascuno si porta dentro.

Basta guardarci, non occorre conoscerci, per capire che ciascuno di noi vive una certa solitudine. Ne siamo consapevoli. Perché siamo preti, uomini, in comunità spesso piccole e disperse. Parlando lingue e mangiando cibi che non sono quelli materni! E comunque, non c’è anima su questa terra che prima o poi non debba fare i conti con la solitudine, vetro freddo che si introduce tra noi e noi stessi, direbbe la poetessa americana Sylvia Plath.

In questi giorni abbiamo pregato gli uni per gli altri. Come San Paolo, abbiamo cercato di fuggire il male con orrore, di attaccarci al bene, di amarci gli uni gli altri con affetto fraterno, di gareggiare nello stimarci a vicenda (cfr. Rom 12,9). Io ne ho approfittato per leggere un romanzo scritto fra il 1948 e il 1949 da Carlo Coccioli dal titolo Il cielo e la terra (1). Racconta di un sacerdote, don Ardito. All’inizio del romanzo, in un impeto di onestà, non esita ad affermare che spesso «noi preti ci comportiamo come se il soprannaturale non esistesse»… Mentre invece «se pensassimo veramente a quello che siamo… impazziremmo di gloria e di orrore, ci lasceremmo cadere per terra…», tanto è sublime il mistero della vocazione che abbiamo ricevuto.

L’ho compreso di nuovo in questi giorni nel vederci insieme a pregare. Non in collegamento online o in diretta streaming, ma insieme. Ho visto i miei confratelli di fronte all’Eucarestia in adorazione, prima seduti, poi in ginocchio, poi prostrati perché uno solo di quei gesti non bastava a dire la propria passione per Gesù. Non riuscivamo a stare solo seduti. Ad un certo punto dovevamo inginocchiarci. Per alcuni, era necessario andare oltre e prostrarsi. Senza comandi, senza finzioni, puro scaturire della grazia dai nostri cuori soli. Già Etty Hillesum parlava dell’inginocchiarsi in preghiera come «il mio gesto più intimo, ancor più intimo dei gesti che ho per un uomo» (2).

Mi ha colpito la fedeltà di ciascuno ai vari momenti comuni. Come se avessimo capito quanto alta sia la posta in gioco di questi tempi, ai confini di una terra spesso refrattaria e impermeabile al Vangelo. Da che parte ricominciare se non dall’amicizia tra di noi. Dai sacramenti celebrati gli uni per gli altri. La sera di giovedì ci siamo confessati individualmente chiedendo ad uno dei confratelli di ascoltare e perdonare. Ho trovato in padre Paul, fidei donum della diocesi di Hong Kong, in Cambogia da qualche anno, lo strumento della misericordia di Dio per me, attraverso un gesto tanto semplice quanto mistico. Alla fine mi ha passato la stola e ho fatto lo stesso per lui. Dobbiamo approfittare dei sacramenti, celebrarli più spesso.

Tempo fa avevo letto il diario di padre Leopoldo Pastori, missionario in Guinea Bissau morto nel 1996. Preparandosi alla confessione, il 2 ottobre 1990, annotava, «mi sto preparando con tanta attesa alla riconciliazione totale con Dio» (3). Mi aveva colpito quel “totale” e preparandomi, giovedì scorso, sentivo lo stesso impeto, di una totale riconciliazione con Dio, senza escludere nulla, come se in quell’istante, al cospetto di Dio, si dovesse condensare tutta la mia vita. Che bello. Che pace!

Anche il curato di campagna, dopo il colloquio finale con la contessa prima che morisse, riconosceva di aver assistito «alla riconciliazione di un’anima con la speranza». Qualcosa di simili «a nozze solenni» (4). Tra l’anima e il suo Dio. Che bello, che pace!

 

1. C. Coccioli, Il Cielo e la terra, Torino 2020.
2. E. Hillesum, Diario 1941-1943, Milano 1996, p. 236.
3. L. Pastori, Tutto di Dio, tutto dei fratelli, Roma 2020, p. 82.
4. G. Bernanos, Diario di un curato di campagna, Milano 1999, p. 148.