AL DI LA’ DEL MEKONG
Lo strappo «più forte degli amplessi»

Lo strappo «più forte degli amplessi»

Che due giovani donne – Hill e Rotha – rinuncino ad una famiglia, all’amore di un uomo, a dei figli, e si consacrino a Dio per tutta la vita, appare inaudito, un evento in sé stesso soprannaturale perché inesistente nei ritmi della natura e della cultura cambogiane

 

«Dio, Dio sempre Dio
che sei più forte degli amplessi
e dei teneri amori». Alda Merini

 

La professione religiosa di due giovani donne cambogiane Hill e Rotha, della Prefettura Apostolica di Kompong Cham, mi offre l’occasione per affrontare il tema del rapporto fra la natura dell’uomo e la Grazia di Dio. Ché due giovani donne rinuncino ad una famiglia, all’amore di un uomo, a dei figli, e si consacrino a Dio per tutta la vita, appare inaudito, un evento in sé stesso soprannaturale perché inesistente nei ritmi della natura e della cultura cambogiane.

Per quel giorno abbiamo allestito degli enormi tendoni sotto i quali è stata celebrata l’Eucarestia. Non disponendo di simili attrezzature siamo ricorsi a quelle compagnie specializzate che arrivano, montano le tende, mettono in fila le sedie, addobbano l’ambiente e se ne vanno. Il punto è che queste compagnie sono attrezzate solo per la celebrazione dei matrimoni secondo i costumi del luogo e tutta la loro attrezzatura, gli addobbi, i drappi, sono pensati per celebrare l’amore coniugale. Chi passa e vede, capisce subito che si sta celebrando un matrimonio. Nel nostro caso però si trattava di qualcosa d’altro, e se da una parte la fede ci dice che la professione religiosa ha a che fare con le nozze, quelle mistiche tra Dio e l’anima del credente, e Giovanni Climaco scrive che «non è sconveniente prendere dalle cose umane immagini e similitudini del desiderio e del timore, l’ardore, la gelosia» (1) per descrivere il servizio e l’amore a Dio, dall’altra non si riesce a fare un simile salto così in fretta. Perché nella consacrazione si assiste al contraccolpo della Grazia che viene a scardinare un processo del tutto naturale, legittimo come il giorno e la notte, la nascita e la morte, l’amore e la sua fecondità. Eppure Hill e Rotha hanno detto «si» e si sono offerte a Dio. È stato commovente l’istante in cui, inginocchiate davanti ai loro genitori, hanno dovuto pronunciare le parole di congedo dalle famiglie secondo la natura, per unirsi alla nuova famiglia religiosa, secondo la Grazia. In quell’istante ho percepito lo strappo, l’inversione di rotta. Il momento in cui, nella vita di fede, si tocca con mano la Grazia che scuote la natura e le dà un orientamento nuovo. Ci si congeda dagli affetti più cari per concedersi a Dio solo, nella certezza che il Suo amore – scrive Alda Merini – è «più forte degli amplessi / e dei teneri amori».

Ché poi sorgano alcune domande, quali domande?, è inevitabile, ma non vorrei rivolgermi alla teologia o alla psicologia, piuttosto alla letteratura e al suo modo di entrare nel mistero delle cose. Denis Diderot nel suo romanzo La religiosa, racconta la vicenda di una donna costretta dalle circostanze ad entrare in convento e che forse per questo ha il coraggio di porsi alcune forti domande: perché Dio che ci ha creati socievoli, «approva (…) che l’uomo si rinchiuda?». Lui che lo ha creato «così incostante, così fragile, può forse autorizzare l’audacia dei voti? Quei voti che contraddicono la tendenza generale della natura, potranno mai essere osservati (…)?» (2). Di questa tendenza naturale si occupano anche due altri brevi romanzi, La madre, di Grazia Deledda e il più recente e meno conosciuto, L’indegno, di Andrea Monda. Entrambi raccontano di preti infedeli, mortificati dal peso della loro natura. Deledda mette in scena Paulo, sacerdote nella Sardegna rurale del secolo scorso che, diventando prete, «gli avevano fatto sbagliare strada» perché «era l’uomo degli istinti lui, come i suoi padri mugnai o pastori». E «soffriva perché era un uomo, perché aveva bisogno della donna, del piacere, di generare altri esseri: soffriva perché lo scopo naturale della vita è di proseguire la vita, e a lui lo impedivano; e questo impedimento aumentava lo stimolo del suo bisogno» (3).

Il secondo romanzo ha invece per protagonista Abraham, sacerdote cattolico di origini ebraiche il cui conflitto con la Grazia di Cristo è già iscritto nel suo sangue ebreo. Se da una parte – racconta – «quando facevo l’operaio mi sembrava di vedere Dio in ogni cosa», dopo l’ordinazione si concede diverse avventure amorose che lo faranno precipitare. Arriverà a rubare dalle offerte dei fedeli, la domenica sera, per avere di che uscire poco dopo a cena con una delle sue amanti. La prima volta, «duecento dollari, non avevo bisogno di altro: volevo fare un regalo a Lisa, celebrare la sua femminilità». I riti, la Scrittura, la meditazione, la foto del momento dell’ordinazione, spariva tutto quanto, perché – racconta – «forse non esiste nulla di sacro oltre alla nostra emozione, al nostro piacere». Colpisce questo secondo romanzo per la lucidità del protagonista la cui doppia vita diventa un rimprovero a Dio: «vorrei capire perché molti dei momenti più emozionanti, più esaltanti abbiano i germi del peccato, della passione incontrollata, della violenza». E nelle notti amorose arriva a supplicarLo, «lasciami in pace, lasciami solo, almeno questa notte, è così bella». Poi la mattina alle sei sarebbe corso a celebrare la santa Messa, come d’abitudine. «I miei peccati sono la vita che mi hai donato, Padre mio che sei nei cieli».

Occorrerebbe molto più spazio per entrare nel dramma umano di questi personaggi, nel loro rapporto con i genitori, con il peso di una vita vergine e apparentemente infeconda, con la Grazia e le inclinazioni della natura. Nondimeno, occorrerebbe altrettanto tempo per «entrare» nella professione religiosa di Hill e Rotha che ci appare ancor di più come un atto soprannaturale: consacrare a Dio tutto, anche quel corpo così invadente, quella natura così passionale e violenta che reclama, prima ancora di un amplesso, un semplice abbraccio. La congregazione a cui appartengono Hill e Rotha ha un nome poco naturale, le Amanti della Croce. Un nome, un programma di vita! Per questo Mons. Enrique Figaredo, Prefetto Apostolico di Battambang, nell’omelia citava il santo Alberto Hurtado, gesuita cileno, il quale raccomandava, tanto più ai religiosi, di amare, «di amare fino a soffrire. Fino alla Croce».

 

  1. G. CLIMACO, La scala del paradiso, XXX, 11
  2. D. DIDEROT, La religiosa, edizione digitale
  3. Cito entrambe le opere dall’edizione digitale