Dalla Nigeria all’Italia e al mondo. È l’esperienza della Missionary Society of St. Paul che è presente in quattro diocesi del nostro Paese. La testimonianza del pioniere, padre Benjamin Okon, da Torino
Il quartiere Le Vallette di Torino si porta dietro la fama di un passato recente fatto di spaccio e insicurezza e, prima ancora, di forte immigrazione meridionale e di una certa ghettizzazione. Erano gli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, quando questa zona periferica venne invasa da una selva di palazzine anonime di edilizia popolare. Oggi il quartiere si è arricchito di qualche viale alberato e di aree verdi, ma anche di nuovi migranti, molti dei quali provenienti dal Nordafrica, che rilanciano con forza il tema della conoscenza e dell’incontro tra culture e religioni diverse.
Al centro la parrocchia, quasi invisibile in mezzo ai palazzoni che la sovrastano: chiesa, casa parrocchiale e oratorio, cautamente circondati da un’alta recinzione. Qui il parroco è un missionario e, in effetti, per molti versi, questo quartiere assomiglia molto a una frontiera. E anche l’Istituto a cui appartiene ha molte somiglianze con il Pime, una società di vita apostolica di rito diocesano. Solo che è nigeriano: la Missionary Society of St. Paul.
«Non sono qui per carenza di preti italiani – tiene a precisare padre Benjamin Okon, originario del Sud-est della Nigeria -. Sono qui per rispondere a una vocazione missionaria che sta alla base del nostro Istituto sin dalla sua fondazione e che attualmente si realizza nella presenza di miei confratelli in 16 Paesi del mondo. E tra questi l’Italia».
La missione “alla rovescia” secondo i canoni tradizionali. Non più o non soltanto missionari del Nord che si recano ai quattro angoli del pianeta per diffondere il Vangelo, ma religiosi e religiose dei molti “Sud” del mondo che vengono a rievangelizzare l’Europa scristianizzata. Le dinamiche sono complesse e, talvolta, non prive di ambiguità. Sta di fatto, però, che quella di padre Benjamin è sempre meno un’eccezione. Anche se una presenza strettamente missionaria come la sua rappresenta ancora oggi qualcosa di straordinario.
Padre Benjamin è stato un pioniere. Prima a Padova e poi a Torino, ha aperto la strada ad altri suoi confratelli che ora si trovano in quattro diocesi: Padova e Torino, appunto, ma anche Ozieri e Ales Terralba in Sardegna, per un totale di sei missionari.
«Sono venuto in Italia nel 2003, per un dottorato in filosofia all’Angelicum di Roma – racconta padre Benjamin, che parla un italiano impeccabile – e nei periodi di vacanza davo una mano in una parrocchia di Padova. Finché l’allora vescovo Antonio Mattiazzo ha inviato una richiesta formale alla mia congregazione per la cura pastorale degli africani anglofoni che sono molto numerosi. È stata fatta una convenzione ed è stato mandato un altro missionario, padre Patsilver Okah, con cui abbiamo lavorato per quattro anni, soprattutto con nigeriani e camerunesi anglofoni».
I due preti nigeriani garantivano la Messa in lingua inglese ma anche incontri serali, appoggiandosi alla parrocchia S. Pio X dei padri Giuseppini e poi al Tempio della pace, ancora più vicino alla stazione, luogo di transito di molti migranti che vivono e lavorano in quel territorio.
«L’allora superiore generale – continua padre Benjamin – ha preso contatti anche con la diocesi di Ozieri in Sardegna per la cura di una parrocchia a cui si è aggiunta anche una presenza ad Ales Terralba. Infine, nel 2013, mi sono trasferito a Torino». La prima parrocchia è stata quella di Sant’Agostino, zona Porta Palazzo, nel cuore della Torino multietnica, con il confratello padre Valentine Iheanacho, che ora è in Sudafrica. E, dallo scorso febbraio, è a Sant’Ambrogio nel quartiere di Lucento-Vallette. Per il momento da solo.
«Sono stato accolto molto bene, come un dono di Dio – conferma il missionario -. Anche perché, da settembre 2016, non c’era nessuno, solo un amministratore parrocchiale che veniva quando poteva…». Insomma, il calo drastico delle vocazioni in Italia un po’ c’entra. Ma non toglie nulla alla vocazione missionaria di padre Benjamin e al suo impegno in un quartiere non facile.
«La nostra società – spiega – è nata alla fine degli anni Settanta per rispondere all’appello di Papa Paolo VI in visita a Kampala, Uganda, nel 1976. In quell’occasione, il Pontefice aveva chiesto alla Chiesa africana di essere essa stessa missionaria dentro e fuori il continente». Un’idea, in questo senso, era già maturata nella mente e nel cuore del cardinale Dominic Ekadem, negli anni Cinquanta, quand’era anche presidente della Conferenza episcopale nigeriana. Il cardinale avrebbe voluto creare un seminario nazionale nel quale venissero formati specificamente coloro che si sentivano chiamati alla vita missionaria.
Ma si deve aspettare sino al 1976 perché venga presa la decisione di creare tale seminario, guidato dalla spiritualità di San Paolo. Il vescovo di Ijebu-Obe, mons. Anthony Sanusi, mette a disposizione un terreno per la nuova costruzione che viene inaugurata il 25 ottobre 1977, in cui la formazione è affidata ai missionari di san Patrizio, primi educatori della Chiesa nigeriana. L’anno successivo, la Conferenza episcopale erige la Missionary Society of St. Paul come pia unione, trasferendo poi la sede della società, ma anche del teologato, nella capitale Abuja. Oggi, il percorso formativo prevede due anni di spiritualità, tre di filosofia e quattro di teologia. La prima ordinazione risale al 22 giugno 1985. Mentre il 17 marzo 1994 la Congregazione per la propagazione della fede ha approvato l’erezione canonica come Società di vita apostolica di rito diocesano. Attualmente i seminaristi sono 94 in filosofia e teologia e 38 in spiritualità, mentre i missionari sono 256, sparsi, come, si diceva, in 15 Paesi: Camerun, Liberia, Botswana, Gambia, Malawi, Ciad, Sudafrica, Sudan, Grenada, Bahamas, Stati Uniti, Inghilterra, Irlanda, Svezia e Italia. Oltre, ovviamente alla Nigeria, dove in questi anni, la Missionary Society of St Paul ha dato un importante contributo alla Chiesa locale. Tre dei suoi ex superiori generali, infatti, sono diventati altrettanti vescovi: mons. Anthony Adaji a Idah; mons. Hiacinth Egbebo a Bomadi; e mons. Anselm Umoren ausiliare dell’arcidiocesi di Abuja, la capitale federale.
Padre Benjamin, prima di “sbarcare” in Italia, ha avuto altre esperienze missionarie: in Camerun per due anni in una parrocchia di Douala e come responsabile delle donne cristiane, e negli Stati Uniti. Ma il passaggio più difficile, racconta, è stato quello dalla vita di studio a Roma alla missione vera e propria. Ora, con una decina di anni di esperienza alle spalle e una buona dose di entusiasmo, padre Benjamin ha preso in mano la sfida della nuova parrocchia torinese.
«È una realtà dinamica e vivace – dice – con gente che ha voglia di fare. Come dicevo, sono stato ben accolto, sia dai preti diocesani che dai laici. Certo, poi devono conoscerti per avere fiducia. A volte c’è ancora qualche pregiudizio soprattutto nei confronti di noi nigeriani…». Padre Benjamin non vuole parlarne, ma è chiaro che la presenza a Torino di gruppi criminali dediti allo spaccio di droga e allo sfruttamento della prostituzione coatta non giova certo all’immagine della comunità nigeriana.
Quanto al quartiere, per il momento, non ha avuto problemi. Sa che in passato ci sono state questioni di criminalità e droga. Ma la sua principale preoccupazione è coinvolgere innanzitutto ragazzini e giovani. «Coloro che frequentano la parrocchia – precisa – sono soprattutto donne, che sono anche le mie principali collaboratrici, o bambini per la preparazione ai sacramenti. Spesso, però, non c’è un reale coinvolgimento delle famiglie. Quanto ai ragazzi è davvero difficile coinvolgerli. La sera vado a chiacchierare con loro nella piazzetta qui di fronte, in cui si ritrovano; a volte apro l’oratorio per loro, ma non vengono in chiesa. Per ora, è solo un rapporto di vicinanza… Vedo molta resistenza negli adolescenti a impegnarsi per la Chiesa, anche solo per andare a Messa».
Nel quartiere ci sono anche molti immigrati e tra questi tanti musulmani, non molto integrati a suo avviso. «Alcuni vengono alla Caritas perché hanno bisogno di aiuto – dice padre Benjamin -. Diamo una mano per il pagamento delle bollette, le medicine o un aiuto alimentare. Ci sono anche alcune famiglie nigeriane che vengono dall’altra parrocchia per amicizia, ma qui non celebriamo la Messa in inglese».
Padre Benjamin conferma di sentirsi bene nella nuova parrocchia, anche se non nasconde di aver vissuto nella sua esperienza missionaria italiana momenti di stupore e incredulità. «Innanzitutto quando sono arrivato a Roma per la prima volta – ricorda -. Nel mio immaginario, l’Italia e il Vaticano rappresentavano il paradiso. Poi sono rimasto molto sorpreso e scioccato dallo stile di vita così poco cristiano di tante persone».
«Anche la partecipazione alle celebrazioni – continua – è diversa da quella che immaginavo prima di venire in Italia. Da noi c’è sempre molta gente in chiesa e un grande coinvolgimento. Qui si vede un po’ di indifferenza e di freddezza. Sono ancora stupito talvolta di constatare che i fedeli non frequentano la parrocchia e non vengono a Messa. E che, invece di essere orgogliosi di essere cristiani, lo sono di non esserlo o di non praticare… Altri riducono Dio allo “sportello del bisogno”. Lo invocano quando c’è una necessità, altrimenti non sanno neppure che esiste. Ma è il problema di molte società occidentali, non solo dell’Italia. I bambini crescono senza Dio; alcuni arrivano al catechismo per la prima comunione senza saper fare neppure il segno della croce. Ma la difficoltà più grande sono i genitori che portano i bambini in chiesa e poi vengono a prenderli alla fine della Messa. Che esempio danno?».
Padre Benjamin sente particolarmente la difficoltà di portare avanti il suo lavoro in un contesto di frammentazione, senza continuità, in cui la fede non è al centro della vita delle persone.
«Vengo da un Paese povero – conclude – ma qui ho trovato tante povertà che non mi aspettavo, materiali, ma soprattutto esistenziali. Alcuni ragazzi mi dicono che non hanno relazioni e soffrono di solitudine. Ma loro stessi non sono capaci di relazione, sono inaffidabili, superficiali, hanno difficoltà a impegnarsi e a dare continuità a un impegno. Vorrei insegnare loro a tenere in mano il Vangelo, a non metterlo su uno scaffale, dimenticandolo lì. Li vorrei vedere interessati, appassionati. Perché non si può costruire nulla sulla sabbia, non reggerebbe». MM