Schegge di storia 2 – Verso le città

Così, più o meno, si procedette fino agli Ottanta del 1900, quando il Bangladesh visse un impetuoso periodo di industrializzazione, con forti investimenti esteri, a cui gradualmente si associarono investitori locali. Gli stabilimenti si localizzarono dapprima nelle città poi nelle periferie, e diedero il via – tra molti altri – a due cambiamenti fondamentali: l’urbanizzazione di milioni di persone che lasciavano i villaggi e venivano “ingoiati” dalle città, sempre più grandi e caotiche, e con essa l’uscita in pubblico di milioni di donne, per lo più musulmane, che nelle industrie tessili e di abbigliamento erano più numerose degli uomini.
Fra gli urbanizzati ci furono anche molti tribali, cristiani e non, catapultati in realtà completamente diverse e nuove per loro. Abituati ai ritmi della natura, alle loro leggi e feste tradizionali, ad un controllo sociale normalmente bene accettato, si sentivano isolati, a volte gravemente smarriti. Furono anche loro, inconsapevolmente, la causa di un svolta che il PIME operò mettendo in discussione la stessa scelta di operare tra i tribali. Una valutazione operata, specialmente dai più giovani, sul fatto che la Chiesa stesse crescendo, ma restava ai margini della società del Bangladesh, e un tentativo di prevedere come le popolazioni tribali avrebbero reagito alla modernità e all’industrializzazione, portarono a conclusioni piuttosto pessimiste: “i nostri impegni non hanno un futuro”; “abbiamo puntato sul cavallo perdente” si diceva scherzando…
Ma ci si disse anche che questa era stata la “scelta degli ultimi”, e quindi evangelicamente da confermare, affiancando ad essa un’attenzione nuova alle città. Tre confratelli arrivati da poco si stabilirono in un appartamento a Dhaka, guardandosi attorno per capire che cosa fare; l’arcivescovo invitò l’Istituto a creare una parrocchia in città; alcuni che lavoravano tra i tribali iniziarono a informarsi a proposito dei molti giovani che conoscevano e che se ne erano andati. Uno di loro, P. Sandro Giacomelli, che si vantava di essere ormai diventato un Santal, iniziò un “censimento” sistematico dei Santal trasferiti a Dhaka, e dichiarò: “Credevamo di essere noi dei villaggi gli “eroi” della missione, ma la fatica più grande è in città!”. E fu solo un incidente mortale in motocicletta, “nel crudele traffico di Dhaka” come aveva scritto lui, a impedirgli di completare quella “conversione”.
Si trattava di allargare gli orizzonti e le disponibilità. Lavorando in città ci si rese conto di quanti cristiani erano presenti e dispersi, e anche delle loro difficoltà ad adattarsi alla pastorale urbana tradizionalmente praticata per i cristiani di origine bengalese. Questi ultimi appartenevano a comunità convertite secoli prima da commercianti portoghesi, rimaste fedeli nonostante varie difficoltà, ma inevitabilmente anche piuttosto chiuse, e fra loro i nuovi arrivati si trovavano a disagio. Dal canto suo, il clero locale – relativamente numeroso nell’arcidiocesi di Dhaka – era persuaso che non ci fosse altro da fare che prendersi cura di loro, essendo tutti gli altri musulmani, perciò “inaccessibili”.
I nostri impegni a Dhaka mossero un po’ le acque e fecero emergere diverse possibili aree di intervento. Avviando luoghi pastorali nuovi, si evitava per gli urbanizzati di recente il disagio di dover essere “ospiti” di comunità già formate e un po’ sospettose nei loro confronti: nelle nuove parrocchie tutti, vecchi e nuovi cristiani, dovevano elaborare un modo di vivere e praticare la loro fede insieme. Si comprese che anche nelle città – in forma diversa – era possibile, anzi necessario praticare le “visite” missionarie. Furono maestre in questo due suore missionarie dell’Immacolata, PIME. Una, l’italiana suor Assunta Giacomelli, insieme all’amica Santal suor Golapi Toppo, la prima suora del Bangladesh entrata fra le Missionarie dell’Immacolata, che praticarono a lungo un fruttuoso nuovo tipo di “mofussol”, non lungo i sentieri delle campagne ma su e giù per le scale dei palazzi nei quartieri “Mirpur 1-12” di Dhaka, allargando rapporti, conoscendo problemi, invitando a uscire dall’isolamento. Così, una dopo l’altra, nacquero le parrocchie di s. Cristina, poi di Maria Regina degli Apostoli, in un’area che allora era periferica, e – oltre i confini della città ma sempre a partire da essa – le parrocchie di Kewachala (P. Baio), di Faukal (P. Canton), e di Utholi, quest’ultima formatasi a partire da un gruppetto di pescatori e da impiegati dei traghetti su cui si attraversava il Brahmaputra da est e ovest, e grazie all’ostinata dedizione di P. Arturo Speziale con qualche laico della parrocchia di Santa Cristina, di cui era responsabile.
Più o meno nello stesso periodo l’emigrazione dei tribali in città ci aprì le porte anche ad una città fra le maggiori dopo Dhaka, con una interessante tradizione di cultura indù ma anche islamica e universitaria: Rajshahi, situata nella parte sud della diocesi di Dinajpur, sulla sponda sinistra del Gange. Il primo a mettervi piede stabilmente fu p. Faustino Cescato, che aprì un ufficio della Caritas per assistere gli urbanizzati poveri, speso sfruttatissimi. Lo seguì – e i due collaborarono a lungo – suor Silvia Gallina (suore della Carità di Maria Bambina), che si prendeva cura del dispensario nella missione di Andharkota, a pochi chilometri dalla città. Suor Silvia si trovava spesso nella necessità di indirizzare gli ammalati a medici specialisti, esami clinici, ospedali…. Quando era possibile li portava lei stessa con la Vespa di cui disponeva, ma in molti casi le condizioni dei malati – o della strada fangosa – non lo permettevano.
Fu così che, in una casupola di periferia, iniziò l’esperienza del “Sick Assistance Center”, o “Centro assistenza ammalati”, che non è un dispensario, e nemmeno un ospedale, ma un punto di appoggio-passaggio per malati poveri e spesso analfabeti, incapaci di sbrogliarsela nei meandri delle strutture sanitarie pubbliche e private della città, di capire che cosa prescrivono i medici, di accedere ai laboratori, di pagare visite mediche, esami, degenze, operazioni chirurgiche… Questo centro si rivelò presto come un punto di incontro e anche di convivenza fra persone molto diverse per appartenenza etnica, religiosa, culturale, e per situazione economica. Su iniziativa di P. Piero Parolari, medico pneumologo, fu aperta anche una sezione separata per gli ammalati di tubercolosi, ai quali dava ospitalità gratuita per due mesi e anche più, quando necessario. Suor Silvia e p. Faustino ebbero l’appoggio del Vescovo, e dei missionari del PIME del sud che operavano in alcune parrocchie di cristiani “tradizionali” bengalesi. Alcuni di loro investirono molto in questa opera in cui vedevano il grande valore di un “annuncio” attraverso una “testimonianza” chiara e provvidenziale; quasi sempre il servizio a chi è nella sofferenza, senza bisogno di parole, fa nascere solidarietà e reciproca comprensione fra le persone più diverse.
Come ho detto, aprirsi alle città non voleva dire abbandonare i villaggi; al contrario, proprio nello stesso periodo e nella logica di una presenza che sia testimonianza, nacquero altri “sotto-centri” e poi vere e proprie parrocchie anche in zone rurali, mentre qualcuno scelse non solo di “andare” ai villaggi, ma di viverci il più possibile come i locali stessi ci vivono: coltivando la terra, seguendo i ritmi delle stagioni, partecipando della loro fatica e delle loro incertezze.
Il primo a impostare la sua missione così fu p. Enzo Corba: ispirato e orientato dalla lettura dei documenti del Concilio Vaticano II, voleva essere non soltanto il missionario dei cristiani, ma un uomo che vive la sua fede cristiana in mezzo a tutti, con tutti, per tutti, accessibile a tutti. Il suo cammino ebbe un’evoluzione quando p. Corba, dopo essere stato superiore regionale del PIME, si trasferì al nord e impostò la sua vita rurale offrendo anche esperienze semplici, accessibili a persone analfabete, di lettura-ascolto-condivisione del Vangelo, dando la parola ai laici, ai catechisti e anche a pastori o fedeli di denominazioni cristiane non cattoliche.
Un altro tentativo di presenza urbana in diocesi di Dinajpur fu operato nei primi anni ottanta da tre missionari giovani a Bogra, città di media grandezza, interamente musulmana e hindu. A Bogra non si trovava un numero rilevante di tribali che potessero fare da riferimento, e l’unica presenza visibile di cristiani consisteva in un piccolo ospedale fondato e gestito da un gruppo protestante che rifiutò l’invito a conoscersi e frequentarsi. La comunità del PIME, perplessa, chiedeva ai tre che cosa intendessero fare in quelle condizioni, e la risposta era: vediamo se – rimanendo presenti – si trova qualche cosa che ci aiuti a stabilire rapporti costruttivi.
Pian piano iniziarono a farsi presenti pochi cristiani trasferitisi a Bogra per lavoro, e prese forma una iniziativa di collaborazione fra famiglie con figli disabili, che non sapevano come aiutare e spesso tenevano nascosti, e con qualche medico che si offrì di collaborare. Ci fu poi una interruzione: dei tre, p. Achille Boccia si ammalò e dovette andare ad Hong Kong per cure, p. Gian Battista Zanchi venne eletto superiore della Regione PIME e dovette trasferirsi a Dinajpur mentre il terzo (il sottoscritto) non si sentì di proseguire da solo e per un anno fu impegnato nel seminario nazionale di Ramna, a Dhaka.
Ma la faccenda non finì: rimesso in salute, oltre un anno dopo P. Achille ritornò con l’idea di creare un luogo di meditazione e preghiera in città, in mezzo ai musulmani, anziché cercando (come normalmente si fa), un posto di silenzio in mezzo al verde… Affittò un piccolo edificio (per la cronaca, un ex pastificio… che in seguito fu acquistato dal PIME) dove viveva e offriva giornate, o tempi più lunghi, di ritiro proprio nel cuore della città; il programma includeva spesso anche una “passeggiata meditativa” nel bazar (mercato) cittadino accanto a moschee e a luoghi di preghiera hindu: un’iniziativa sconcertante, ma che interessò non pochi: seminaristi, suore, preti e qualche laico. P. Achille pubblicava (scritta a mano e fotocopiata) la rivista “Atma o Jibon” (Spirito e Vita) che sosteneva questa intuizione del pregare l’Unico Dio in un certo senso insieme, anche se separatamente. Subentrarono poi altri missionari, e il luogo per un certo tempo ospitò una “comunità vocazionale” del PIME che ora è a Dinajpur. Questi vari tentativi un po’ tormentati lasciarono poi in “eredità” alla diocesi, non solo l’edificio, ma un impegno pastorale ormai consolidato per e con i cristiani nel frattempo trasferitisi a Bogra, e una piccola scuola.
Sempre in questo periodo, il PIME ebbe occasione di coinvolgersi anche con la missione nel sud del Bangladesh, diocesi di Chittagong, prima città portuale del Bangladesh. Fu il Vescovo Joaquin, uomo molto attento a cercare un rapporto positivo con il mondo non cristiano, amico personale di p. Corba, che ci invitò. La diocesi di Chittagong, molto estesa, include anche un vasto territorio collinare chiamato “Hill Tracts” abitato da almeno 15 piccoli gruppi tribali, diversi da quelli in cui aveva operato il PIME e – accanto a non molti cristiani bengalesi “tradizionali” di cui ho fatto cenno sopra – anche gruppetti di “anglo indians” da famiglie miste di inglesi con bengalesi o di origine mista portoghese e indiana. Poiché l’area collinare era terreno di guerriglia proibito agli stranieri, si fece come un “baratto”: noi avremmo accettato qualche responsabilità in parrocchie più o meno tradizionali della pianura e della costa, e il Vescovo avrebbe mandato i diocesani nel “Hill Tracts”. Così fu per alcuni anni, e anche qui i missionari del PIME svilupparono parrocchie nuove con scuole, ostelli, dispensari, nello stile più classico della missione in Bangladesh.
Furono poi due congregazioni religiose (Santa Croce, di origine americana e canadese, e Oblati di Maria Immacolata venuti dallo Sri Lanka) ad assegnare personale di nazionalità bengalese alla missione negli Hill Tracts, dove fino ad oggi svolgono un grande lavoro anche per la difesa dei tribali, spesso angariati e derubati delle loro terre. Infatti, un accordo raggiunto nel 1999 pose fine alla guerriglia, ma mentre i tribali consegnarono le armi, i vari governi che si succedevano non mantennero la parola di demilitarizzare l’area, e al contrario favorirono l’immigrazione di bengalesi. In pochi anni la cittadina di Bandarban, il centro urbano principale nel centro nord degli Hill Tracts, a maggioranza tribale, passò ad essere a maggioranza bengalese musulmana. A sua volta il PIME in Bangladesh, elaborata una serie di “priorità” da seguire nel proprio impegno missionario, decise di ritirare gradualmente il poco personale in diocesi di Chittagong a vantaggio di altre attività e presenze sia tra i tribali del nord, sia nelle città, e di riservare particolare attenzione ai poveri (come sempre…), ai giovani, alla formazione e a categorie emarginate, nonché al “dialogo” con comunità di religione diversa.
(continua)
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