Nella casa circondariale di Pavia, un’esperienza targata Pime con un gruppo di detenuti immigrati. Per vivere il carcere diversamente e provare a tenere lo sguardo aperto al mondo
Timore, impegno, soddisfazione, entusiasmo. Sono i passaggi emotivi di un’esperienza del tutto nuova che ha visto protagonista l’équipe del settore Educazione alla mondialità del Pime di Milano. Nei mesi di giugno e luglio, Elisabetta Nova e Ilaria Mantegazza, educatrici del Pime, hanno svolto un percorso di formazione interculturale nella casa circondariale di Pavia “Torre del gallo” con un gruppo di dodici detenuti di diverse nazionalità, tutti non italiani. L’intervento è nato da una collaborazione fra la cappellania del carcere, la direzione sanitaria e l’ufficio Educazione alla mondialità del Pime che, con il suo gruppo di educatori, da 16 anni lavora sui temi dell’accoglienza e del dialogo fra le culture; nelle scuole e non solo. Il corso, che si è sviluppato in cinque incontri, ha rappresentato una novità assoluta anche per la casa circondariale di Pavia, che non aveva mai collaborato prima con personale esterno sul delicato fronte della convivenza fra detenuti di diverse nazionalità.
Dei circa 600 uomini reclusi nel carcere di Pavia, quasi la metà sono immigrati, in prevalenza provenienti da Est Europa e Magreb. “Torre del gallo” è una casa circondariale: dovrebbe in teoria essere destinata a detenuti in attesa di giudizio e ai condannati a pene inferiori ai cinque anni. In realtà, ospita anche persone che devono scontare lunghe pene detentive, quindi è un istituto di reclusione a tutti gli effetti.
Seppure non vi siano condizioni di sovraffollamento, la mancanza di fondi impedisce di ristrutturare gli ambienti di un’area del carcere che ne avrebbe bisogno e incide anche sul percorso rieducativo: vi sono solo quattro educatori per 600 detenuti e un sottorganico costante degli agenti di polizia penitenziaria, costretti agli straordinari e a fronteggiare da soli situazioni pericolose (aggressioni, tentativi di suicidio, atti di autolesionismo).
«Il primo impatto è stato duro – afferma Elisabetta Nova, coordinatrice del settore Educazione alla mondialità del Pime -. Siamo entrate in carcere cercando di andare oltre i luoghi comuni che nell’immaginario collettivo sono legati a questo contesto, ma muovendo i primi passi nei corridoi ci siamo scontrate con una dura realtà: ambienti squallidi, aria ferma, vestiti appesi alle finestre delle celle ad asciugare, il rumore delle chiavi delle porte di ferro che si chiudevano alle nostre spalle. Per arrivare all’aula del corso siamo passate tra le celle e con la coda dell’occhio vedevamo detenuti dormire, fare le pulizie».
Qual è l’apporto che un istituto missionario può dare all’interno di un carcere? Per capirlo è necessario “entrare” nell’ufficio Educazione alla mondialità. Sedici anni fa padre Alberto Caccaro del Pime ha avuto l’intuizione di veicolare i valori della missione alle nuove generazioni in Italia, alle scuole e alle agenzie educative. «Uno dei nostri ispiratori è stato il cardinale Carlo Maria Martini, che diceva che le differenze culturali, religiose e sociali devono “fermentarsi a vicenda” – afferma Elisabetta Nova -. La nostra presenza in carcere vuole esprimere la ricerca di questa reciproca fermentazione. Come nei percorsi a scuola, in parrocchia e con i giovani, siamo partiti dalle storie e dai vissuti di ciascuno interpretandoli nell’ottica di un’appartenenza ad un’umanità comune. Mettere al centro la persona è l’obiettivo di ciascun nostro progetto e questo approccio si è rivelato adatto anche in carcere».
«Abbiamo cominciato con un’attività semplice e coinvolgente, così da sperimentarci e conoscerci reciprocamente e superare l’ostacolo linguistico e comunicativo – spiega Ilaria Mantegazza, responsabile dell’Ufficio mondialità del Pime -. A partire da immagini evocative e simboliche, ci siamo messi tutti in gioco raccontando qualcosa di noi che ci sentivamo di condividere. Il percorso è stato un crescendo di confronto, dialogo e consapevolezza… ogni volta diventava sempre più sincero. Da parte dei detenuti c’è stata molta curiosità nei nostri confronti. Noi, d’altra parte, abbiamo giocato da subito a carte scoperte, dichiarando che era la prima volta che proponevamo un percorso formativo in carcere, e ci siamo accorte che questo approccio è stato gradito. Nelle nostre attività invitiamo le persone a valorizzare il potenziale donato a ciascuno. Con i detenuti, attraverso metodologie attive e partecipate, abbiamo insistito sulla possibilità di attuare un cambiamento per andare a fondo nel loro percorso rieducativo. In particolare, sono stati apprezzati l’utilizzo dell’espressività corporea e teatrale e, una volta guadagnata la fiducia, le attività di narrazione autobiografica.
I riscontri sono stati positivi. Valeria Pezzi, psicologa del carcere, che con la collega Valeria Faravelli ha accompagnato l’intervento, sottolinea: «Forse proprio lo stile esperienziale, diverso rispetto alle attività cui i detenuti si affidano per passare il tempo, ha saputo suscitare tra i presenti una spiccata curiosità ed una partecipazione sincera e anche per noi è stimolante collaborare con qualcuno che, dall’esterno, può portare un contributo diverso».
«Al termine del corso i ragazzi ci hanno ringraziato e chiesto di tornare, anche quelli che il primo giorno erano scettici. E questo per noi è stata una sospirata conferma del potenziale dell’Ufficio mondialità del Pime anche in nuovi contesti di frontiera – afferma Elisabetta Nova -. Questa attività si è rivelata un’occasione di crescita e di nuove riflessioni sociali ed educative». Visto il successo dell’esperimento, il Pime ha deciso di supportarne una seconda edizione. Il prossimo anno saranno attivati due percorsi: il primo con lo stesso gruppo di detenuti, e un secondo, sempre di cinque incontri, con un nuovo gruppo. «La realtà attorno a noi sta cambiando ed è importante rivedere anche il nostro modo di essere missionari – commenta padre Giorgio Licini, direttore del centro Pime di Milano -. Mettere le nostre competenze a servizio di un mondo sempre più multiculturale è una delle sfide che vogliamo raccogliere».