La crisi economica e politica, ma soprattutto la sua lotta per i diritti umani e la libertà religiosa. Shirin Ebadi, Nobel per la pace, si racconta
Di primo acchito ha un’aria mite e gentile. Poi, però, quando inizia a parlare, tira fuori una forza e una determinazione che non ci si aspetta. Shirin Ebadi, 71 anni, Premio Nobel per la pace nel 2003, non ha perso il piglio battagliero e la voglia di mettersi in gioco in prima persona. Oggi il suo Paese sta attraversando una grave crisi economica – ma non solo – aggravata dalle sanzioni Usa. Gli attentati interni dello scorso settembre, l’interventismo regionale (in Siria, Libano, Yemen…), le politiche oscurantiste del regime degli ayatollah e i giochi di potere delle grandi potenze stanno portando il Paese sull’orlo di un pericoloso precipizio. Come raccontano anche le proteste di piazza spesso soffocate con brutalità.
Lei stessa ha subìto violenze e vessazioni da parte del regime. È stata cacciata dalla magistratura e messa in prigione. Ha pagato un prezzo molto caro anche a livello personale e familiare. E ora, da una decina d’anni, è costretta a vivere in esilio. «Se fossi in carcere – ci fa notare – la mia voce non arriverebbe a nessuno. Dall’estero io parlo e la mia voce arriva a tutto il mondo a favore del popolo iraniano». Poi però ci chiede di aprire la finestra. Gli spazi chiusi la mettono ancora a disagio…
Shirin Ebadi, il suo Paese sta vivendo una grave crisi da diversi punti di vista. Come vede il futuro dell’Iran?
«Oltre a non rispettare e a violare i diritti umani, oltre alla violenza che c’è in Iran, ci sono seri problemi economici. Questa povertà ha varie cause: le scelte sbagliate, a livello sia economico che politico. Sono anni che l’Iran sostiene gli Hezbollah e tutte le loro spese, così come ora sostiene i ribelli houthi nello Yemen. Ha speso molti soldi in Siria e in Iraq, soldi che avrebbero dovuto essere spesi per ar crescere il Paese. Così la situazione interna è peggiorata e la povertà è aumentata. Un altro motivo della crisi è la corruzione: molti rubano e mandano i soldi all’estero. Per non parlare poi delle sanzioni che non fanno che peggiorare le cose. Se l’Iran non cambia la propria politica andiamo verso un destino simile a quello del Venezuela, un Paese che ha il petrolio e che dovrebbe essere molto ricco, ma dove la gente è talmente povera che non ha nemmeno il pane da mangiare: due milioni di venezuelani hanno lasciato il Paese. Mentre gli iraniani manifestano da quasi un anno e nessuno li ascolta».
Lei però lo ha fatto, nonostante sia costretta a vivere in esilio. Recentemente – in occasione delle proteste di piazza – è intervenuta sulle questioni più cruciali che interessano la vita degli iraniani, in particolare le gravi violazioni dei diritti umani o gli abusi nei confronti dei più deboli o dei più vulnerabili. Cosa significa farlo appunto da una condizione di esilio?
«Dopo il 2009, in seguito ai problemi politici seri che avevo avuto con il governo, non sono più riuscita a tornare nel mio Paese. Ma se non torno non è perché abbia paura di essere arrestata. Io sono già stata in prigione e ho capito che posso anche sopportare le condizioni di vita della prigionia. Però la questione è un’altra: dove posso essere più utile per il mio Paese? Dal carcere, la mia voce non arriva a nessuno, mentre se sono all’estero posso parlare e la mia voce arriva a tutto il mondo a favore del popolo iraniano. Per questo motivo, viaggio dieci mesi all’anno».
Lei è la prima donna musulmana ad aver ricevuto un Nobel per la pace. E in più occasioni ha ripetuto che non c’è contraddizione tra islam e diritti umani. O meglio tra la sharia – la legge islamica – e diritti umani. Molte crisi recenti sembrerebbero dire il contrario…
«L’islam ha varie interpretazioni come qualunque altra religione. In Europa, una Chiesa può accettare l’aborto, un’altra no. Eppure tutte e due sono cristiane. Questo può riguardare anche l’islam. Un quarto della popolazione del mondo è musulmana, quindi è comprensibile che abbiano modi di vivere diversi tra di loro. Però i media parlano sempre dei musulmani estremisti o fondamentalisti; non hanno presente quanti musulmani aperti e intellettuali ci siano nel mondo. Interpre-tando correttamente l’islam noi possiamo perfettamente rispettare e far rispettare i diritti umani».
Le religioni possono essere strumento di pace? O attraverso le loro manipolazioni sono diventate troppo spesso strumento di guerra?
«Sì, la manipolazione è il problema, così come l’errata interpretazione. La religione se viene applicata nel modo giusto è senz’altro strumento di pace. Nessuna religione accetta che si uccidano le persone. Non c’è una religione che dica che rubare va bene o che la corruzione va bene. Le religioni hanno molte strade davanti a loro per aiutare e sviluppare l’amicizia tra i popoli. Bisogna usare queste strade. Comunque, secondo me, tutte le religioni dicono la stessa cosa, scaturiscono da uno stesso principio. In una frase: tratta gli altri così come vorresti che gli altri trattassero te».
Cosa pensa di Papa Francesco?
«Ho molto rispetto per lui e vorrei fare uno scambio con voi cristiani (dice con un sorriso)… Scambiarci i nostri capi religiosi!».
Lei continua a difendere in particolare le minoranze perseguitate, come i baha’i nel suo Paese o – come ha fatto lo scorso febbraio in Bangladesh con altre due donne Premi Nobel, Mairead Maguire dell’Irlanda del Nord e Tawakkol Karman dello Yemen, come i rohingya…
«La maggioranza che ha il potere non ha bisogno di essere difesa. Sono le minoranze che hanno bisogno di essere sostenute e aiutate».
Ma c’è spazio per qualche forma di pluralismo religioso in Iran? In realtà il suo è un Paese meno monolitico di quanto non venga rappresentato. Non solo sciiti, ma anche cristiani, zoroastriani, baha’i , appunto…
«Nella Repubblica islamica che si è instaurata nel 1979 chiaramente non c’è la possibilità del pluralismo religioso. La nostra religione ufficiale è l’islam sciita. Vari gruppi religiosi musulmani, cristiani, zoroastriani o ebrei sono accettati come religioni e anche come minoranze. Però ce ne sono alcuni, come per esempio i baha’i, che non sono né riconosciuti né accettati. Non possono nemmeno frequentare l’università, non hanno nessun diritto nel Paese. Anche le altre religioni, però, subiscono discriminazioni. Ad esempio, se muore un cristiano che ha tre figli, la sua eredità dovrebbe andare a loro. Ma se questa persona ha un nipote che si è convertito all’islam, questo erediterà tutto solo perché è musulmano. Questo è solo un esempio, ma di leggi così ce ne sono tante. Le peggiori riguardano le conversioni dall’islam: se un musulmano si converte a un’altra religione, infatti, la punizione può essere molto severa, addirittura la pena capitale».
Anche tra i musulmani però ci sono differenze. Penso in particolare alla minoranza sunnita, che comunque contempla milioni di persone, che spesso viene marginalizzata…
«È così. Solo per fare un esempio, a Teheran non è stata permessa la costruzione di nessuna moschea sunnita. Ma anche tra gli sciiti ci sono discriminazioni: chi non accetta l’interpretazione ufficiale dello Stato – come ad esempio i sufi o i dervisci – viene penalizzato. In Iran ci sono 400 sufi in carcere, non perché non siano sciiti, ma perché hanno un’altra interpretazione della religione. La popolazione non approva queste leggi e sono anni che si cerca di cambiarle».
Su quale fronte sta lavorando in particolare in questo momento? C’è una causa che le sta particolarmente a cuore?
«Il mio campo di attività è sempre stato quello dei diritti umani. E in questo momento sono molto attiva proprio sul tema della libertà religiosa».
Per tutto questo lei ha pagato un caro prezzo anche a livello personale e familiare. Ne valeva la pena?
«Ogni cosa ha il suo prezzo. La democrazia e la libertà in particolare hanno il loro prezzo. Se un popolo non vuole pagare quel prezzo non sarà mai libero. I vostri padri lo hanno fatto e così voi oggi siete più liberi. Altrimenti senza i loro sacrifici voi non sareste stati liberi. E così sì, anche io ho pagato un prezzo caro, ma non ne sono pentita, poiché penso che la gente debba farlo per ottenere dei risultati».
In prima linea
Shirin Ebadi è stata la prima donna a esercitare la professione di giudice in Iran, ma è stata cacciata dalla magistratura con l’avvento della rivoluzione islamica del 1979. Ha continuato, in veste di avvo-cato, a difendere i diritti dei più deboli e vulnerabili, in particolare donne e bambini, ma anche dissidenti politici, minoranze perseguitate o famiglie di intellettuali uccisi dal regime. Nel 2000 è stata ac-cusata pretestuosamente di disturbo alla quiete pubblica e condannata all’interdizione della sua attività di avvocato. Nel novembre 2009, la polizia ha fatto irruzione nel suo appartamento di Teheran mentre si trovava all’estero. Da allora vive in esilio. Ha pubblicato diversi libri, tra i quali “Finché saremo liberi” (Bompiani 2016). E ha partecipato recentemente alla rassegna “Molte fedi sotto lo stesso cielo” a Bergamo, dove l’abbiamo incontrata (moltefedi.it)