Dalla Cambogia all’Europa la stessa sfida dell’annuncio

EDITORIALE
Spesso nei contesti ecclesiali si respira incertezza su cosa significhi fare missione in Italia. La si associa all’incontro con i migranti e con i poveri. Ma così si rischia di perderne la specificità, annacquandone l’essenza.

 

Negli ultimi tre anni di presenza in Cambogia, il vescovo di Phnom Penh mi chiese di iniziare una nuova missione a Ta Khmau, nei pressi della capitale. Nessuno ci aveva chiamato, nessuno ci attendeva, nessuno aveva espresso il desiderio di conoscere Gesù e la fede cristiana. Bisognava far partire un’esperienza “a perdere”. Partimmo consapevoli che con il Vangelo in mano non si perde mai. Così iniziai questa presenza in una zona periferica della cittadina affittando una casa con un grande giardino.

Ero uno sconosciuto tra sconosciuti. Cominciai aprendo le porte del cortile ai bimbi del vicinato e andando a trovare le persone nelle loro case. Conobbi così jeyii (nonna) Boramy: viveva in una palafitta di legno sopra uno stagno maleodorante. All’ingresso, sull’amaca il marito anziano e semi infermo, in fondo, accanto alla cucina, una figlia ventenne disabile fisica e mentale. La ragazza non si muoveva, viveva adagiata sul pavimento di bambù. Nonna Boramy viveva 24 ore al giorno accanto a lei. L’unica uscita che si concedeva era per la catechesi e la Messa alla domenica pomeriggio. Non era cattolica, era buddhista. Non so quanto capisse della catechesi e delle mie prediche in khmer. Un giorno le chiesi: «Nonna, ma perché vieni qui tutte le domeniche?». Lei rispose: «Perché qui trovo la forza per andare avanti. Voi e Gesù mi date la forza che mi serve».

Questo è puro annuncio del Vangelo, semplice e nudo, che prende vita nella comunità, corpo di Cristo. Una storia semplice quella di jeyii Boramy, nulla di eclatante. Eppure dice la straordinarietà del Vangelo. Il missionario vive della passione per questa straordinarietà nel quotidiano, il cui annuncio oggi va rimesso al centro anche dalla Chiesa italiana. Spesso nei contesti ecclesiali si respira incertezza su cosa significhi fare missione in Italia. La si associa all’incontro con i migranti e con i poveri. Ma così si rischia di perderne la specificità, annacquandone l’essenza. In qualche diocesi si ipotizza di unire in un unico ufficio missione, migranti e carità. Ma l’annuncio è un dovere di tutta la Chiesa e si rivolge a ognuno indistintamente perché Cristo è la salvezza per tutti. Il messaggio del Papa per la Giornata missionaria mondiale ce lo ha ricordato chiaramente nel titolo: “Non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato”. E cosa abbiamo visto e ascoltato noi cristiani? Cristo è morto ed è risorto. È bene dirlo a chiare lettere: la missione della Chiesa è l’annuncio di Cristo morto e risorto ovunque e comunque.

Possiamo forse dire che oggi l’Italia e l’Europa non siano terre di missione? Lo sono a pieno titolo! E non si tratta di qualcosa che ha a che fare solo con la carità verso il povero o l’accoglienza al migrante. La missione riguarda tutti coloro che incontriamo, tutti quelli che abitano la nostra società. Riguarda urgentemente anche i nostri fratelli italiani che non conoscono Cristo. E sono davvero tanti, soprattutto tra i più giovani. MM