Padre Vincenzo Bordo, missionario degli Oblati di Maria Immacolata, da oltre trent’anni lavora al servizio dei poveri vicino a Seoul, dove la società è molto competitiva e si rifiuta di vedere gli ultimi
Quando si imbarcò per Seoul, nel 1990, in molti si chiedevano che utilità potesse avere un missionario italiano in Corea del Sud, uno dei Paesi più avanzati al mondo e ormai con una vivace comunità cattolica locale. Padre Vincenzo Bordo e un confratello furono il primi missionari degli Oblati di Maria Immacolata a mettere piede in terra coreana, dove i cattolici oggi sono l’11% della popolazione. «Quel giorno, sulla pista dell’aeroporto, ho percepito che una nuova storia stava per iniziare». Lo racconta lui stesso nelle pagine di “Chef per amore”, la sua autobiografia da poco pubblicata dal Centro Volontari Sofferenza. Ancora dopo trent’anni di servizio pastorale, infatti, l’attività principale di padre Bordo, originario di Piansano, un piccolo paese della Tuscia in provincia di Viterbo, resta quella di servire anziani soli, persone senzatetto e poveri nella mensa del centro “Casa di Anna” a Seongnam, una città poco più a sud di Seoul.
Quando l’esperienza iniziò, nel 1992, tutti, compreso il vescovo, gli avevano raccontato che in Corea non c’era povertà. Finché padre Vincenzo incontrò don Pae Pedro, un prete locale, che invitò il missionario a recarsi nella parrocchia di Shing-un, dove al tempo si contavano circa 5.000 cattolici. «Qui ci sono molti poveri – gli disse -. Ti aiuterò a inserirti nel contesto». L’anno dopo il Comune affidò alla parrocchia una prima mensa, chiamata “Casa di pace”. «Nel pomeriggio mi univo a suor Mariangela che faceva apostolato nei quartieri indigenti della città per capire, imparare e conoscere la realtà dei poveri, che c’erano in città, eccome!». Molto semplicemente, la società coreana non li voleva vedere, e per questa ragione le istituzioni non vedevano nemmeno il bisogno di finanziare le attività dei missionari. Gran parte del lavoro veniva svolto grazie a donazioni dall’Italia da parte di amici degli Oblati di Maria Immacolata. «Mi sono reso conto che nelle società moderne, ricche e consumistiche, se una persona, oltre agli occhi sotto la fronte, non ha anche un cuore grande, aperto e attento a coloro che passano accanto, non potrà mai accorgersi delle sofferenze altrui che affliggono le nostre città», commenta il religioso di Piansano.
Allo stesso modo tutti sostenevano che in Corea non ci fossero nemmeno analfabeti; ma pure in questo caso l’esperienza del missionario con gli anziani smentì queste tesi. «Anche quando nel 2002 iniziai un programma di sostegno alla dislessia i dottori mi dissero che in Corea non c’erano persone affette da questo disturbo», aggiunge padre Bordo, lui stesso dislessico.
Nato nel 1957, durante i suoi anni di studio in seminario (prima in quello minore di Montefiascone e poi in quello regionale La Quercia) di dislessia non si parlava ancora in Italia. L’unico sostegno di cui disponeva il futuro sacerdote era l’amore della madre che lo esortava a ripetere la lettura dei testi.
Ed è dedicata a una madre anche la Casa di Anna. Nel 1998, infatti, padre Vincenzo, non più direttore della Casa di pace, si trovò senza lavoro come tanti coreani, nell’anno della crisi finanziaria asiatica, che colpì duramente il Paese. Fu la provvidenza a condurre alla sua porta Matteo Oh Eun-yong, proprietario di un grande ristorante della città: «Mi disse: “Come sai la crisi economica sta riducendo alla miseria tante persone. Ogni mattina trovo una fila interminabile di uomini in cerca di lavoro. So che tu ti occupi dei poveri. Se lo desideri, metto a tua disposizione una parte della cucina e provvedo a tutto ciò di cui hai bisogno”». Matteo aveva solo una richiesta: che la mensa dei poveri prendesse il nome di sua madre, Anna, scappata dalla Corea del Nord durante la guerra del 1950-53, ma che anche da profuga aveva sempre cercato di condividere qualcosa con quanti non avevano nulla da mangiare.
Ed è così che da 30 anni ogni mattina il sacerdote (che al suo arrivo in Corea non sopportava il riso e tanto meno il kimchi, il cavolo fermentato piccante alla base della dieta coreana) indossa il suo grembiule per cucinare insieme ai volontari. Oggi oltre 500 persone si recano alla Casa di Anna, nel 70% dei casi per ricevere l’unico pasto della giornata. A fine 2021, durante la pandemia di Covid-19, il numero di utenti era arrivato a 990 persone.
Ma le attività di padre Vincenzo non terminano qui. Dopo aver notato che tra gli utenti della mensa c’erano anche alcuni adolescenti, si incuriosì e andò a cercarli per le strade della città, scoprendo che nella maggior parte dei casi scappavano da famiglie problematiche. I più piccoli oggi trovano spazio in case famiglia, mentre i più grandi vengono indirizzati verso programmi di reinserimento lavorativo grazie anche alla presenza di una fabbrica che permette loro di mettere da parte del denaro, perché il vitto e l’alloggio sono coperti dalla parrocchia.
Nel 2019, però, colpito dal numero elevato di giovani che restavano in strada, il sacerdote ha deciso di promuovere anche il progetto Azit, un “bus cerca ragazzi”: «Abbiamo comprato un grande autobus e iniziato ad andare in giro dalle 16 alle 24 in cerca dei ragazzi e delle ragazze che vagavano per le vie della città». Oggi Azit è un punto di ristoro, ma anche un «ospedale da campo per curare le ferite aperte e un oceano di consolazione per tanti giovani abusati. Sono profondamente convinto – spiega padre Vincenzo – che i ragazzi, oltre ad avere bisogno di un posto sicuro, hanno necessità di tanto affetto e amore».
Il nome coreano di padre Vincenzo è Kim Ha Jong, che significa “servo di Dio”. «Io ero arrivato in Corea con il solo desiderio di amare Gesù e servire gli ultimi». Una vocazione che al giorno d’oggi pare aver riscoperto anche la città di Seoul. La capitale ha ricevuto diversi riconoscimenti per le politiche progressiste messe in atto dalle amministrazioni locali allo scopo di ridurre le disuguaglianze economiche all’interno della società, nota per essere ipercompetitiva. Padre Vincenzo ha calcolato il contributo della Casa di Anna: «Dal 1993 al 2022 abbiamo fornito 3.119.137 pasti, 20.905 interventi sanitari, 1.060 cure dentistiche, 707 consulenze legali, ma soprattutto tanto rispetto e amore per la gente abbandonata nelle strade di una città ricchissima, ma disattenta».
Ora il missionario, che non ha ancora trovato un altro sacerdote a cui cedere il grembiule da chef, spera in realtà che la Casa di Anna venga chiusa: «Sogno una società senza più strutture di assistenza sociale perché non ce n’è più bisogno. Sogno anche il giorno in cui mi recherò alla nostra Casa di Anna e non essendoci più mendicanti davanti alla porta e nelle strade, potrò chiudere i battenti e gettare la chiave lontano».