Oltre la metà degli infermieri è emigrata all’estero e il governo vorrebbe assumere operatori non abilitati. Ma il problema sono i bassi salari e le condizioni di lavoro
Oltre la metà degli infermieri attivi emigrati all’estero: nelle Filippine la fuga degli operatori sanitari si è trasformata in una vera emergenza nazionale, tanto da spingere il governo a proporre l’assunzione di laureati senza abilitazione.
Nel Paese asiatico il fenomeno non è nuovo, e la presenza massiccia di personale filippino negli ospedali di mezzo mondo è evidente non solo in Occidente ma anche in Giappone, a Singapore e, in particolare, nella Penisola Arabica: una visita nelle cliniche degli Emirati dà un’idea di come il sistema sanitario locale crollerebbe senza il contributo essenziale delle infermiere provenienti dalle Filippine, che nella vicina Arabia Saudita sono ben 130 mila.
Oggi, tuttavia, questo esodo ha raggiunto livelli inediti, provocando gravi contraccolpi in patria: il Dipartimento della Salute ha lanciato l’allarme, dichiarando che nel Paese mancano 350.000 infermieri. Il segretario dell’ente Teo Herbosa ha affermato che «gli ospedali stanno riducendo il numero di posti letto perché non sono in grado di soddisfare il rapporto tra i pazienti e chi si prende cura di loro». Tra gli operatori abilitati, d’altra parte, 316.000 – ovvero il 51% del totale, appunto – nel 2021 risultavano emigrati all’estero.
Ecco perché – ha reso noto lo stesso ente – anche ai laureati che non hanno superato gli esami per l’abilitazione professionale verrà concessa una licenza temporanea per contribuire a coprire una parte dei posti vacanti nelle strutture governative. Un’opportunità che, secondo lo stesso Herbosa, porterebbe un doppio vantaggio, visto che «un’esperienza lavorativa diretta sarebbe proficua per i laureati».
Questa misura emergenziale, tuttavia, non affronta le cause all’origine di un fenomeno aggravatosi con la pandemia di Covid-19: paghe molto basse e condizioni di lavoro spesso insostenibili. «Molti infermieri accudiscono fino a 50 pazienti in un solo turno, a fronte di un salario minimo», ha sottolineato più volte Jocelyn Andamo, segretaria generale di Filipino Nurses United (Fnu), il principale sindacato nazionale di categoria. Il problema, sostengono gli interessati, non è la mancanza di personale qualificato, ma il fatto che questi professionisti – nella maggior parte dei casi donne, che spesso si lasciano alle spalle i figli destinati a soffrire le conseguenze dell’assenza materna – preferiscono trasferirsi all’estero piuttosto che accettare una situazione insostenibile in patria, aggravata da un’inflazione che nell’ultimo anno è stata la più alta del Sud-est asiatico.
Il think tank Ibon Foundation (fondato negli anni Settanta dalla religiosa e attivista suor Mary Soledad Perpiñan) ha recentemente stimato che una famiglia filippina deve guadagnare almeno 1.147 pesos (21 dollari) al giorno per soddisfare i bisogni primari e riuscire a risparmiare qualcosa, ma secondo l’ultima rilevazione effettuata dal Dipartimento del lavoro e dell’occupazione (nel 2018) il salario medio mensile di un infermiere, a livello nazionale, era di soli 679 pesos. Cioè tra le paghe più basse dell’intera regione, ha calcolato durante la pandemia di Covid l’aggregatore di dati IPrice: un professionista con esperienza, che nelle Filippine poteva ambire a guadagnare 40.381 pesos al mese (741,8 dollari), in Vietnam avrebbe avuto una paga del 57% più alta, e a Singapore avrebbe ricevuto addirittura il 486% in più che a casa.
Un incentivo sommatosi al disagio di una categoria pesantemente trascurata nei mesi più duri dell’emergenza sanitaria, se è vero che molti operatori hanno dovuto sostenere da soli i costi dei propri dispositivi di protezione individuale, e sono ancora in attesa dei 12,57 miliardi di pesos (oltre 231 milioni di dollari) in indennità Covid non pagate dal governo.
A queste condizioni, sono in moltissimi a decidere di abbandonare non solo il Paese ma addirittura la professione, per scegliere impieghi non qualificati, dai call center alle vendite al dettaglio on line. I dati sono chiari, e sconfortanti: la Commissione di regolamentazione filippina ha reso noto che meno del 54% dei quasi un milione di infermieri abilitati nel Paese sono attualmente attivi. Il personale, dunque, ci sarebbe, ma non è disposto a rimettersi il camice. Per questo, secondo gli osservatori locali, i propositi del presidente Marcos Jr, che si è impegnato a concludere accordi con Paesi esteri per “importare” infermieri e ad agevolare appunto l’abilitazione di quelli filippini, evitano di affrontare la radice del problema. «Noi crediamo – ha affermato la presidente di Fnu Eleanor Nolasco – che solo quando il governo garantirà un salario dignitoso – e la nostra richiesta è di 50.000 pesos di stipendio d’ingresso sia nel settore pubblico sia nel privato – e quando verranno concessi agli infermieri standard di lavoro e benefit adeguati, allora queste persone accetteranno di tornare in corsia».