Dopo il Covid-19 si è accentuato il reclutamento di personale sanitario da parte dei Paesi ricchi in quelli poveri. Una faccia nascosta delle migrazioni, che sta provocando una vera e propria emergenza. Ma nei luoghi di origine
La pandemia di Covid-19 ha lasciato strascichi che sono andati ben oltre la lunga emergenza che ha coinvolto e sconvolto tutto il mondo, accentuando criticità che erano già evidenti prima. Una di queste è la carenza sempre più grave di personale sanitario nei nostri ospedali e nelle residenze per anziani, così come in quelli di molti altri Paesi cosiddetti “sviluppati”. Paesi che stanno cercando di colmare queste lacune “importando” personale da nazioni povere e in via di sviluppo. Rendendole, di conseguenza, ancora più povere e vulnerabili anche dal punto di vista dell’accesso alle cure sanitarie e minando gravemente il diritto alla salute.
L’allarme – passato un po’ in sordina – era stato lanciato già lo scorso marzo dal direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Ghebreyesus, che ha presentato una lista rossa di 55 Paesi particolarmente a rischio per la perdita di personale sanitario a causa della migrazione internazionale. Di questi, ben 40 si trovano in Africa, mentre altri riguardano la regione del Pacifico occidentale e del Sud-Est asiatico a cui vanno aggiunti Afghanistan, Pakistan, Yemen e Haiti.
«Gli operatori della sanità – ha dichiarato Ghebreyesus – sono la spina dorsale di ogni sistema di salute, eppure questi Paesi con alcuni dei sistemi più fragili al mondo non ne hanno abbastanza e molti stanno perdendo i propri a causa della migrazione internazionale. L’Oms sta lavorando per sostenerli, rafforzando il loro personale sanitario e chiedendo a tutti i Paesi di rispettare le disposizioni previste dall’elenco delle garanzie dell’Organizzazione». Tra queste disposizioni – che peraltro non sono vincolanti – alcune chiedono che «il movimento internazionale degli operatori sanitari sia gestito in modo etico, che siano garantiti i diritti e il benessere degli operatori sanitari migranti e gli obiettivi di erogazione dei servizi sanitari». Ma anche che si adottino tutte le misure necessarie per garantire una presenza adeguata di operatori in tutti i Paesi e che le tutele siano estese anche a quelli a medio e basso reddito.
Nella realtà, quello che è avvenuto in questi ultimi anni è esattamente il contrario: si è infatti assistito a un esodo sempre più massiccio di medici e infermieri dai Paesi più poveri verso quelli più ricchi e anagraficamente più vecchi. La Banca Mondiale – molto pragmaticamente, ma anche molto cinicamente – sottolinea nel suo rapporto “World Development Report 2023: Migrants, Refugees, and Societies” il fatto che le divergenze demografiche renderanno «la migrazione sempre più necessaria nei prossimi decenni». Per questo, suggerisce che «i governi dei Paesi di origine dovrebbero rendere la migrazione di manodopera una parte esplicita della loro strategia di sviluppo, mentre quelli di destinazione dovrebbero utilizzare la migrazione per soddisfare le loro esigenze di manodopera». Una logica mercantile che, inevitabilmente, avvantaggia chi ha già molto e impoverisce, in tutti i sensi, chi ha poco o niente. Anche in termini di risorse umane qualificate.
Queste logiche hanno portato a una vera e propria emorragia di medici e infermieri da molti Paesi poveri, che hanno investito risorse per formarli, ma che hanno sistemi sanitari troppo fragili e spesso disorganizzati per riuscire a trattenerli. Paesi che non sono in grado di competere con le offerte di lavoro e salariali che provengono dalle nazioni ricche.
Un caso emblematico per l’ampiezza del fenomeno riguarda la Gran Bretagna. Dopo la Brexit – che ha provocato la partenza di migliaia di medici dell’Unione Europea – e dopo la pandemia di Coronavirus che ha ulteriormente stressato il sistema, il Paese si è ritrovato con una grave mancanza di personale sanitario. Ed è andato a prenderselo soprattutto nelle ex colonie. Oggi, ad esempio, nel Regno Unito ci sono più di 11 mila medici formati in Nigeria, terza nazionalità dopo indiani e pakistani, secondo l’UK General Medical Council. Dal canto suo, la Nigerian Association of Resident Doctors (Nard) stima che in Nigeria ci siano solo 24 mila medici per 220 milioni di abitanti, mentre per l’Oms ne servirebbero almeno 363 mila. Ma il flusso è inarrestabile: solo nel 2022, il Regno Unito ha rilasciato 1.609 visti a personale medico nigeriano e migliaia di altri operatori sono partiti per Stati Uniti e Canada.
La questione ha suscitato un grande dibattito e molte polemiche in Nigeria, dove tra l’altro prolifera l’industria dei farmaci contraffatti e dilagano le pratiche di pseudo guaritori-ciarlatani, che spesso contribuiscono ad aggravare una condizione sanitaria già molto precaria. La situazione è, per certi versi, ancora più grave in Paesi come lo Zimbabwe, dove lo scorso agosto si sono tenute delle elezioni presidenziali molto controverse e contestate. In un contesto di instabilità e di diffusa povertà, nonostante i significativi passi avanti compiuti soprattutto nel settore dell’istruzione e dell’università, la migrazione rappresenta ancora oggi una via d’uscita e di riuscita per molti. E c’è chi se ne approfitta. Solo nel 2022, il numero dei visti concessi dalla Gran Bretagna a cittadini dello Zimbabwe è aumentato addirittura del 1.576%. Molti di coloro che lo hanno ottenuto sono medici, infermieri e operatori socio-sanitari. Già l’anno precedente, nel 2021, ben 2.200 sanitari, di cui 900 infermieri, avevano lasciato il Paese. Secondo la Zimbabwe Medical Association, in un Paese di 15 milioni di abitanti ci sono solo 3.500 medici, che continuano a essere attratti da migliori stipendi e migliori condizioni di vita per sé e le proprie famiglie all’estero. Ma l’esodo non riguarda solo il personale sanitario. Nel febbraio 2023, sempre il Regno Unito ha stilato una lista di Paesi e territori i cui docenti possono ottenere lo status di insegnante qualificato, che consente di lavorare a lungo termine. Tra questi ci sono, appunto, lo Zimbabwe, ma anche la Nigeria, il Ghana e il Sudafrica per quanto riguarda l’Africa. Si tratta di un altro segnale inquietante se si pensa che per immaginare uno sviluppo sostenibile di questi Paesi il primo livello da rinforzare è proprio quello dell’educazione che – insieme alla sanità e all’economia – è la base per garantire un futuro alle nuove generazioni. Eppure ancora oggi la gran parte dei Paesi africani ha un indice di copertura sanitaria universale bassissimo e un tasso di densità del personale molto inferiore alla media mondiale che è di 49 medici, infermieri e ostetriche ogni 10 mila abitanti. «Questi Paesi – sostiene l’Oms – richiedono un sostegno prioritario per lo sviluppo della forza lavoro e il rafforzamento del sistema sanitario, insieme a ulteriori salvaguardie che limitino il reclutamento internazionale attivo».
Questo sostegno, tuttavia, non è ancora visibile o efficacemente messo in campo, né dalla stessa Oms né tantomeno dai governi locali, che continuano a trascurare i propri sistemi sanitari; la conseguenza è che spesso sono senza strutture, infrastrutture, strumentazioni e medicinali e il personale viene pagato molto poco o addirittura in modo irregolare. Quanto ai governi del mondo ricco – e non solo quello anglosassone – sembra che non si facciano troppi scrupoli nel portare avanti politiche di “importazione” di personale qualificato.
È un’altra faccia del fenomeno migratorio, meno mediatizzata e meno raccontata, ma che è molto presente nei flussi e che viene spesso incentivata da quegli stessi Paese che poi pongono muri e barriere all’arrivo dei migranti. Sempre per restare alla Gran Bretagna – solo per fare un esempio – il governo di Londra ha provato in tutti i modi a implementare un progetto di “esternalizzazione” dell’accoglienza di richiedenti asilo addirittura in Ruanda, a 6.500 chilometri di distanza. Dopo varie dispute legali e accuse di violazioni dei diritti umani, Londra sembra aver rinunciato a questa sciagurata ipotesi, che prevedeva – ad esempio – un viaggio di sola andata verso Kigali, dove i profughi (molti dei quali afghani o iraniani) avrebbero potuto ottenere lo status di rifugiato per rimanere in Ruanda o chiedere asilo in un altro “Paese terzo sicuro”. Il governo di Rishi Sunak e della sua ministra degli Interni Suella Braverman – entrambi peraltro con genitori di origini indiane immigrati in Inghilterra dall’Africa – aveva affermato che «chiunque fosse entrato illegalmente nel Regno Unito dopo il 1° gennaio 2022 avrebbe potuto essere inviato in Ruanda, senza limiti di numero». Ora che il progetto sembra bloccato, il governo britannico ha pensato bene di relegare fino a 500 richiedenti asilo su una nave-prigione al largo di Portland. Non è certamente lo stesso trattamento che viene riservato al personale specializzato, anche in altri Paesi con politiche migratorie molto selettive – come Stati Uniti, Canada, Australia o, per restare in Europa, la Francia – che favoriscono, anzi incentivano, l’ingresso di figure professionali qualificate in ambito medico-sanitario.
Anche sul fronte africano, tuttavia, vanno rilevate le gravi carenze e la mancanza di visione. I governi, spesso fragili e inefficaci, faticano a prendere provvedimenti per cercare di arginare questi flussi migratori. In Zimbabwe, l’ex vicepresidente e ministro della Sanità Constantine Chiwenga aveva minacciato di rendere illegale il reclutamento di personale sanitario e lo aveva paragonato a un «crimine contro l’umanità». «Se le persone muoiono negli ospedali perché non ci sono infermieri e medici è perché qualcuno è stato così irresponsabile da non formare i propri cittadini, ma approfitta di quelli formati nei Paesi poveri. Questo è un crimine e deve essere preso sul serio». Peccato che, in molti casi, questi stessi governi accettino volentieri fondi o “compensazioni” teoricamente destinati a migliorare i propri sistemi sanitari ma spesso dirottati nei meandri dell’inefficienza o, peggio, della corruzione. E così, oltre ai proclami, resta davvero ben poco per rendere più dignitoso l’esercizio di una professione così indispensabile per il benessere di tutti come quella medico-sanitaria.