Anche l’Italia ha sempre più bisogno di personale sanitario: «Ma “importare” stranieri aumenta le diseguaglianze nel mondo», sostiene l’infettivologo Viganò
Medici cubani in Calabria, argentini in Sicilia e in Friuli-Venezia Giulia, paraguaiani in Lombardia… Mentre aumenta il personale sanitario straniero che viene a lavorare in Italia, aumenta anche il numero degli italiani che lasciano il nostro Paese per andare all’estero. Solo in Lombardia, tra i 6 e i 7 mila infermieri sono emigrati e circa 4 mila vanno tutti i giorni in Svizzera. Intanto la regione, così come tutto il Paese, è costretta, a sua volta, a “importare” professionisti per colmare il deficit sempre più drammatico di personale medico-sanitario.
Il fenomeno delle migrazioni di medici e infermieri non riguarda solo Nord e Sud del mondo. Riguarda da vicino anche l’Italia. Le dinamiche, del resto, non sono molto diverse: c’è chi parte alla ricerca di condizioni lavorative e salariali migliori e chi arriva per colmare le lacune di un sistema sanitario spesso mal gestito e inefficiente, messo ulteriormente in ginocchio dalla pandemia di Covid-19. Secondo l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp), il personale medico del Servizio sanitario italiano si è ridotto di 41 mila unità tra il 2008 e il 2018, con un parallelo progressivo aumento dell’età media, che nel 2020 era di 51 anni per i medici e 47 per gli infermieri. Mentre sono più giovani e sempre più numerosi gli operatori sanitari provenienti da altri Paesi. L’Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi) stima che, nel 2022, erano circa 77.500, 2.500 in più dell’anno precedente: di questi, 22 mila sono medici, 38 mila infermieri, 5 mila farmacisti e 5 mila fisioterapisti e altre figure sanitarie. Otto su dieci lavorano nel settore privato, anche perché hanno difficoltà ad accedere ai concorsi pubblici. Foad Aodi, presidente dell’Amsi, conferma che «è aumentata del 35% la richiesta di medici, infermieri e fisioterapisti da parte delle strutture pubbliche e private, maggiormente da Sicilia, Sardegna, Veneto, Lombardia, Umbria, Lazio, Calabria, Puglia e Molise». E sottolinea anche come la presenza di personale straniero abbia permesso di «evitare la chiusura di più di 250 servizi in strutture sanitarie pubbliche e private, poliambulatori, medicina generale e pediatria».
Al cuore del problema, ovviamente, c’è – o dovrebbe esserci – il diritto fondamentale alla salute dei cittadini che oggi è sempre di più messo in discussione o non adeguatamente garantito anche nel nostro Paese. Che fare, dunque? Basta “importare” professionisti stranieri, magari da Paesi poveri e fragili dal punto di vista dei sistemi sanitari?
Paolo Viganò, infettivologo e a lungo direttore del reparto di Malattie infettive dell’ospedale di Legnano, prova a contestualizzare. Con un duplice sguardo: da Nord e da Sud. Recentemente andato in pensione, continua infatti a occuparsi di cooperazione internazionale, soprattutto in campo sanitario, attraverso il Gruppo Solidarietà Africa, che opera in diversi Paesi del continente e sostiene in particolare gli ospedali dei Fatebenefratelli di Tanguiéta in Benin e di Afagnan in Togo.
«Non direi che in Italia c’è un’enorme carenza – analizza Viganò -: il rapporto medico-paziente nel nostro Paese è tuttora più alto della media europea. Ma c’è un’enorme fuga di medici e di personale sanitario dagli ospedali pubblici. Non è solo una questione economica. Occorre ripensare il sistema sanitario nazionale che non funziona, creare migliori condizioni di lavoro e salari più in linea con la media europea, evitare o rimediare a errori di programmazione».
È all’interno di un quadro più ampio e complesso, dunque, che va letto anche il fenomeno del reclutamento di personale sanitario di altri Paesi: «L’Italia non è particolarmente attrattiva neppure per i medici stranieri che, peraltro, non tutti sono adeguatamente preparati. Francia e Gran Bretagna stanno importando un numero impressionante di operatori qualificati, sia perché ne hanno un enorme bisogno, sia perché continuano a essere legate a doppio filo con le ex colonie. Noi lo stiamo facendo soprattutto per le residenze per gli anziani».
Visto dal continente africano, però, il fenomeno è ancora più inquietante. IL G.S. Africa, così come molte altre organizzazioni, ha investito moltissimi fondi ed energie in formazione del personale locale, supportando le istituzioni dei vari Paesi per incrementare numero e qualità di medici e infermieri e garantire alla popolazione un più vasto e qualificato accesso alla sanità. Un diritto, questo, che non è per nulla scontato, dal momento che tutta la sanità è a pagamento, gli ospedali si trovano solo nei grandi centri, i dispensari non hanno medici e talvolta neppure medicine.
«Abbiamo spesso sostenuto ospedali e centri di salute nelle regioni più periferiche dei Paesi dove operiamo per avvicinare i servizi sanitari alla gente che vive in zone remote e abbandonate – spiega il dottor Viganò -. Spesso, però, questo personale, appena ne ha la possibilità va altrove, nelle grandi città o nelle capitali, o viene reclutato dalle grosse organizzazioni internazionali. Abbiamo sempre pensato che, nonostante la difficoltà di ricominciare sempre da capo, avevamo comunque contribuito a formare personale competente a servizio della popolazione locale. Questo, ovviamente, finché resta nel proprio Paese. Oggi, invece, quello che vediamo è un esodo massiccio verso i Paesi più ricchi. È inevitabile viste le diseguaglianze e gli squilibri che ci sono e che sono aumentati dopo la pandemia di Coronavirus. Ma questo esodo non fa che allargare il gap e impoverisce ulteriormente di risorse umane Paesi che sono già poveri e fragili da tutti i punti di vista».