La Corea del Nord vista da vicino

La Corea del Nord vista da vicino

Le tensioni crescenti nella penisola coreana preoccupano la comunità internazionale: «Dobbiamo tornare a parlare con Pyongyang», sostiene Katharina Zellweger, profonda conoscitrice del Paese, che interverrà al Centro Pime di Milano il 12 novembre alle ore 18.30. Ascolta questo articolo anche PODCAST

Oltre il 38° parallelo, la stretta fascia demilitarizzata che dal 1953 divide in due la penisola coreana, si nasconde uno dei Paesi più sconosciuti al mondo: «Spesso la gente si immagina la Corea del Nord come una specie di buco nero, dove gli abitanti sono completamente indottrinati o vivono in campi di detenzione, ma non è così! Io lì ho tanti amici che stimo, brillanti e con un ottimo senso dell’umorismo». Mette subito le mani avanti Katharina Zellweger, una vita trascorsa in Asia come operatrice umanitaria, con il cuore diviso tra la natìa Svizzera – lasciata alla fine degli anni Settanta -, Hong Kong, da dove per 30 anni ha diretto i progetti della Caritas Internationalis in Nord Corea, e Pyongyang, che è stata la sua casa tra il 2006 e il 2011, quando dirigeva l’Agenzia svizzera per lo Sviluppo e la Cooperazione. Oggi alla guida della ong KorAid, Zellwege­r non ha mai smesso di osservare da vicino le dinamiche del Paese guidato dalla dinastia Kim fin dal 1948, subito dopo la nascita della Repubblica Popolare di stampo stalinista che, ancora oggi, resta formalmente in conflitto con la Repubblica di Corea, al Sud.

«Le crescenti tensioni degli ultimi mesi con Seoul inquietano e non sono un bene per la sicurezza internazionale», conferma l’esperta, membro del programma per la Corea del Nord presso la Stanford University in California. «D’altra parte, si tratta di un conflitto che, tra alti e bassi e provocazioni incrociate, va avanti da settant’anni, opponendo due società che si sono sviluppate in modo molto differente e due governi che rivendicano entrambi di rappresentare l’autorità legittima dell’intera penisola. È anche uno scontro di potere, che coinvolge entrambe le parti. Di recente la stampa occidentale si è concentrata sui palloncini pieni di spazzatura mandati da Pyongyang a Seoul, ma già più di dieci anni fa attivisti del Sud cominciarono a spedire verso il Nord palloncini colmi di propaganda antiregime, dollari statunitensi e chiavette usb contenenti musica k-pop e film sudcoreani. È una storia che continua da tempo».

In tutti questi anni, la Corea del Nord è cambiata?

«Di sicuro non è più il Paese che conobbi quando ci misi piede per la prima volta nel 1995, anche se le sanzioni internazionali continuano ad avere un forte impatto sulla stagnazione economica. Ma l’uniformità di un tempo è svanita: oggi la situazione varia da luogo a luogo e ci sono molte realtà diverse, che non sempre è facile conoscere perché i confini sono stati riaperti da poco dopo essere stati sigillati nel gennaio 2020 in seguito alla pandemia di Covid. Posso dire che ora esistono molte più attività di mercato privato, con maggiori opportunità per la gente di trovare strategie per arrivare a fine mese. In tanti si possono permettere un pannello solare, o una bici elettrica. A Pyongyang, poi, il cambiamento è enorme: si è sviluppata una classe media e in molti possiedono un telefono cellulare, cosa che ha notevolmente migliorato le comunicazioni. Ma, lontano dalla capitale, restano molte criticità».

Quali sono le emergenze principali del Paese?

«Prima di tutto un’insicurezza alimentare cronica: non si parla più di carestia, come negli anni Novanta, ma resta la malnutrizione, soprattutto tra i bambini, che non mangiano cibo sufficientemente vario. E poi assistenza medica inadeguata e scarso accesso all’acqua potabile e alle strutture igienico-sanitarie. In più i frequenti disastri naturali aggravano la vulnerabilità della gente. Le organizzazioni internazionali possono arrivare solo fino a un certo punto: la loro azione deve essere in sintonia con quella del governo. Come cooperante ho lavorato in vari progetti volti a migliorare il settore dell’agricoltura, ma il Paese ha solo il 18% di terra arabile, quindi resta un approccio limitato. Bisogna cambiare il sistema economico, ma questo è molto difficile con le pesanti sanzioni a cui Pyongyang è sottoposta».

A suo giudizio bisognerebbe ripensarle?

«Si tratta di sanzioni estremamente dure, dovute al programma missilistico e nucleare nordcoreano. Ma più che dal regime, il loro impatto è sperimentato dalla gente comune, così come dalle agenzie umanitarie. Sarebbe fondamentale fare ripartire i negoziati, oggi del tutto arenati. In questo contesto anche la Cina gioca un ruolo importante, visto che la Corea del Nord dipende da Pechino per importare cibo, per le forniture energetiche e altre necessità, mentre sta crescendo la relazione con la Russia, da cui arrivano altri aiuti».

C’è il rischio che l’Occidente lasci il Paese nelle mani di questi attori “concorrenti”?

«In effetti abbiamo assistito alla formazione di un nuovo gruppo, composto da Russia, Cina, Corea del Nord e Iran, che sembra coo­perare in misura crescente contro Washington e i suoi alleati, mentre la relazione con la Corea del Sud è ai minimi storici. Per questo penso che ci siano serie preoccupazioni di sicurezza nella penisola, e che dobbiamo trovare un modo di tornare a parlare con Pyongyang. Su questo fronte sono moderatamente ottimista dopo che, a settembre, la Svezia ha riaperto la sua ambasciata in Corea del Nord, che rappresenta gli interessi statunitensi in loco dal momento che gli Usa non riconoscono il Paese e non hanno rapporti diplomatici».

Qual è il volto dei cittadini nord­coreani, oltre gli stereotipi?

«Come sempre accade, anche in circostanze difficili la vita va avanti e le persone si formano una famiglia, vogliono uscire, amano cantare, ballare e ridere. In tanti anni ho iniziato ad ammirare i nordcoreani: sono molto pieni di risorse, resilienti. Bisogna davvero distinguere tra il regime e la gente. Quando lavoravo per il governo svizzero avevo un bel team locale e anche oggi, con la ong, ho instaurato amicizie tra le persone che gestiscono le organizzazioni con cui collaboriamo».

Esiste una società civile locale?

«Non è facile, è necessario seguire le regole del Paese e non superare la linea rossa. Certo ci sono università, una comunità scientifica ma la gente comune non ha accesso a molti strumenti che noi diamo per scontati, come internet o le telefonate internazionali. Non si può andare in una libreria e comperare volumi o giornali stranieri. Tuttavia in questi anni – a parte l’ultimo periodo post pandemia – i confini sono diventati più porosi, una fetta più grande di cittadini può viaggiare e più stranieri – uomini d’affari o turisti – arrivano nel Paese e offrono piccole finestre sul mondo “là fuori”. Per questo penso che sia così importante essere presenti in Corea del Nord. Ma, a proposito della vitalità della società civile, vorrei aggiungere un’osservazione: se ti svegli al mattino e il tuo primo pensiero è: “La mia famiglia avrà abbastanza da mangiare oggi? Siamo tutti in salute? I bambini andranno a scuola?”, queste sono le tue priorità nella vita».

Ecco perché lei ha fondato la ong KorAid.

«Siamo una piccola realtà basata a Hong Kong che, in rete con alcune organizzazioni semigovernative nordcoreane, si occupa delle persone con disabilità. In questi anni abbiamo, per esempio, sostenuto circa 35 mila operazioni di cataratta, importando lenti, gocce oculari e attrezzature essenziali in dieci ospedali in tutto il Paese. Abbiamo fornito materiali per un centro di riabilitazione nella città di Hamhŭng sulla costa Est, dove è stato possibile costruire circa mille dispositivi ortopedici. E poi abbiamo costruito serre in centri sanitari residenziali per bambini, così da migliorare la loro alimentazione, fornito materiali per la vita quotidiana e finanziato il rinnovamento di queste strutture spesso cadenti. Un programma di cui sono molto orgogliosa è la formazione, per operatori e parenti dei pazienti, su autismo e disturbo da deficit di attenzione: un campo totalmente nuovo per quel contesto».

Esiste oggi una Chiesa locale in Corea del Nord?

«Mancano statistiche ufficiali sulle religioni nel Paese. Se all’inizio del 1900 Pyongyang era chiamata la “Gerusalemme d’Oriente”, oggi quei tempi sono andati, anche se viaggiando capita di imbattersi ancora nelle tracce di qualche chiesa. Dopo la divisione della penisola, i cristiani sono scappati in massa al Sud. Una piccola comunità, tuttavia, è rimasta. Nella capitale sorge una chiesa cattolica e ci sono alcune chiese domestiche nelle zone rurali, dove si tengono momenti di preghiera ma non si celebra la Messa perché non sono presenti sacerdoti, salvo i rari casi in cui si autorizza l’ingresso di un prete straniero. I report parlano di uno dei Paesi peggiori al mondo in termini di libertà religiosa. Personalmente, anche sulla base della mia esperienza in Cina, resto convinta che la fede non possa essere sradicata e che in qualche modo sopravviva, qualunque sia la situazione».

 

 

L’INCONTRO AL PIME

Martedì 12 novembre alle 18.30 Katharina Zellweger (nella foto) sarà ospite al Centro Pime di Milano per un incontro su “La Corea del Nord vista da vicino. Miti e realtà del conflitto oltre il 38° parallelo”. Info su centropime.org