Dopo i gravi disordini dello scorso gennaio nella capitale Port Moresby, è iniziato il rimpallo delle colpe: «Ma tutti devono prendersi la loro responsabilità», dice padre Giorgio Licini, missionario del Pime e segretario della locale Conferenza episcopale, che si prepara ad accogliere Papa Francesco ad agosto
Il “Mercoledì nero di Port Moresby”: così è stato ribattezzato lo scorso 10 gennaio, quando la capitale della Papua Nuova Guinea è stata scossa da violente proteste a seguito del taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici, attribuito dal primo ministro James Marape a «un errore informatico del sistema». Ai gravi disordini, con centinaia di negozi assaltati e numerosi edifici e auto dati alle fiamme, il governo ha risposto con lo stato di emergenza: negli scontri successivi le vittime sono state almeno 22.
Questi eventi rappresentano un campanello d’allarme per il governo, ma anche per la Chiesa locale che ad agosto potrebbe ricevere la visita di Papa Francesco. Sulla grave situazione sociale del Paese è intervenuta la Conferenza episcopale con una nota ufficiale firmata dall’arcivescovo di Port Moresby, il cardinale John Ribat: «Oltre alla perdita incalcolabile di vite umane, è altissimo il prezzo pagato dall’intera comunità: in tanti si aggiungeranno alla crescente disoccupazione», si legge nel testo, che tocca anche un altro tema doloroso: «Stiamo ricevendo preoccupanti notizie secondo cui anche diversi cattolici impegnati nei gruppi di preghiera e nei ministeri per i giovani si sono uniti alla devastazione». L’arcivescovo sottolinea poi la necessità di «politiche realistiche in materia di lavoro e sicurezza sociale. Questioni che non vengono affrontate dalla politica».
Riportiamo qui un commento di padre Giorgio Licini, missionario del Pime e segretario generale della Conferenza episcopale di Papua Nuova Guinea e Isole Salomone.
Ci sono voluti alcuni giorni per dare un senso agli improvvisi disordini del “Mercoledì nero” di Port Moresby. Nel frattempo è iniziato il rimpallo delle colpe, come se ci fosse qualcuno più responsabile degli altri. Ma dobbiamo assumerci la responsabilità collettiva. I comuni cittadini, le Chiese, lo Stato e il governo sono ugualmente responsabili.
Molti cittadini sono opportunisti. Non solo affluiscono nella capitale in numero eccessivo senza validi motivi di studio o di lavoro, ma gettano immondizia per le strade, si organizzano in bande, portano in città i conflitti delle Highlands, impongono i loro modi alle popolazioni costiere più pacifiche e remissive.
Le Chiese in questo momento sono troppo frammentate. Le principali Chiese tradizionali hanno perso gran parte della loro influenza morale sulle comunità. Si dice che forniscano ancora servizi sociali consistenti nel campo dell’istruzione e della sanità, ma non è rimasto molto dell’afflato di evangelizzazione e dei valori evangelici trasformativi dei tempi delle missioni prima dell’indipendenza. Le nuove comunità Evangeliche e Pentecostali confondono in gran parte fede, politica e denaro perseguendo il Vangelo della prosperità piuttosto che la conversione dei cuori e la rettitudine di vita. Il calo dell’istruzione generale e del pensiero critico sta spingendo il Paese nel baratro del fondamentalismo religioso e dell’idea anacronistica del cristianesimo come religione della Costituzione.
Ciò comprometterebbe ulteriormente la già deteriorata indipendenza degli organi costituzionali e indebolirebbe l’idea che lo Stato sia più grande del governo di turno e non coincida con esso. Lo Stato funziona meno oggi che al momento dell’indipendenza. Cinquant’anni fa la preoccupazione riguardava il numero limitato di cittadini in possesso del livello di studi e di esperienza necessari per gestire lo Stato, i suoi dipartimenti e le sue agenzie. Ora che gli entusiasti amministratori pionieri non ci sono più, i loro successori sono afflitti da problemi di corruzione, interessi personali, sfrenatezza e favoritismi, scarsi risultati e prestazioni ministeriali.
Alla fine la responsabilità spetta al governo, il che riflette il cattivo stato delle cose a livello generale. Con il Parlamento meno credibile nella storia del Paese, dove è probabile che la maggioranza dei membri abbia vinto nello spoglio piuttosto che nelle votazioni, la Papua Nuova Guinea ha visto troppo poco negli ultimi cinque anni circa in termini di pulizia della politica, lotta alla corruzione, investimenti locali ed esteri, sviluppo della sanità e dell’istruzione, elettrificazione urbana e rurale, trasporti aerei e marittimi, controllo dei prezzi dei beni di prima necessità; restano solo la retorica e l’obiettivo irraggiungibile della “nazione cristiana nera più ricca della terra”.
Il primo ministro ha cercato di sistemare le cose dopo il 10 gennaio, e giustamente. Il rimpasto di governo, tuttavia, solleva più domande che risposte. La nomina, la riconferma o il mantenimento dei ministri già respinti dal popolo rivela in modo più che sufficiente la mancanza di sensibilità democratica e di rispetto da parte della leadership politica. Coloro che non sono riusciti a controllare e disciplinare la polizia sono ancora a capo della polizia. Coloro che solo pochi mesi fa hanno sorprendentemente dichiarato al Parlamento che non esiste alcuna emergenza occupazionale nel Paese sono ancora seduti da qualche parte nei palazzi del potere di Waigani a prendere o aiutare a prendere decisioni. Alcuni stanno saccheggiando la città, ma forse perché altri stanno saccheggiando il Paese. Moralmente e politicamente, se non finanziariamente.