Da vent’anni il vescovo del Pime Cesare Bonivento è pastore nella regione al confine con l’Indonesia. Una giovane Chiesa dove l’essere cattolici lo si racconta anche nella piazza del mercato
Era parroco a Watuluma padre Cesare Bonivento, quando nel 1992 ricevette la comunicazione che il Papa l’aveva nominato vescovo di Vanimo. «Non sapevo nemmeno che esistesse una missione chiamata Vanimo – ricorda -. Men che meno sapevo dov’era. Ma quando il Papa chiama non resta che obbedire e raccomandarsi al buon Dio…».
Avrebbe imparato a conoscerlo in fretta, monsignor Cesare, questo territorio nell’estremo Nord della Papua Nuova Guinea, al confine con l’Indonesia: 30 mila chilometri quadrati – più della Sicilia o del Piemonte – ma con soli 110 mila abitanti. Diocesi divisa in due parti: quella lungo la costa, con la città di Vanimo, dove le comunicazioni sono abbastanza facili. E poi quella del bush, il territorio dell’interno, dove ci sono montagne e foreste quasi senza alcuna strada. I cattolici sono un terzo della popolazione e vivono soprattutto sulla costa; all’interno invece i villaggi sono soprattutto protestanti e animisti. «Oggi però – racconta il ve¬scovo – si fa sentire anche la presenza delle sette pentecostali, soprattutto sulla costa. Vanimo è una città di frontiera con l’Indo-nesia, quindi vengono in molti ad investire soldi per la pesca, per le miniere e per altri prodotti locali. Tra loro ci sono anche membri delle sette che fanno propaganda con grandi promesse di guarigioni, di benessere e tanta gente semplice ci crede. Invece nell’interno si verifica il fenomeno opposto: migliaia di protestanti (non più seguiti) e di animisti vorrebbero farsi cattolici. Se solo avessimo sacerdoti, suore, catechisti e mezzi…».
In queste ultime parole c’è tutta la sfida di vent’anni di episcopato in una Chiesa così giovane. Quando il 10 maggio 1992 Bonivento venne consacrato era il terzo vescovo di Vanimo: la diocesi era nata nel 1966, ma era rimasta senza vescovo da quattro anni, in una situazione difficile, perché invasa dai profughi che scappavano dalla vicina provincia di Irian Jaya dell’Indonesia. Monsignor Cesare ricorda quei primi anni spesi anzitutto per riportare la pace. «Quan¬te fatiche e quanti viaggi alla capitale Port Moresby, nella città indonesiana di Jayapura e poi all’interno delle foreste dove i guerriglieri avevano i loro campi…».
Monsignor Cesare, al di là delle tensioni politiche, quale Chiesa hai trovato allora arrivando a Vanimo?
«Sono molto riconoscente ai Passionisti australiani, che hanno fondato questa diocesi a partire dal 1960. Prima c’era stata qualche sporadica presenza di missionari verbiti e poi francescani, che però non si fermavano a Vanimo. I Passionisti hanno fatto miracoli perché era un ambiente molto difficile: anche dal punto di vista delle strutture hanno costruito tanto. Poi sono arrivato io e ho avuto altre difficoltà, ma anche tante nuove possibilità. In questa Chiesa c’è stata continuità. Lo dico sempre ai miei fedeli: siamo riconoscenti e preghiamo per i Passionisti».
In Italia e nell’Europa cristiana ci sono molti battezzati ma si è perso l’entusiasmo della fede delle prime comunità cristiane. E a Vanimo?
«Un aspetto sorprendente della Papua Nuova Guinea è l’entusiasmo della fede in chi si converte a Cristo. La voglia di parlare, di comunicare la propria esperienza religiosa, l’amore a Cristo. I pentecostali “convertono” rapidamente molti tribali portando loro la Bibbia (o alcune parti di essa) e lasciando a tutti piena libertà di parola. Nelle loro assemblee ciascuno parla, predica, proclama la propria fede. Anche i cattolici vogliono parlare nelle piazze e io li incoraggio a dare la loro testimonianza. Vanno nei mercati, dove si raduna la gente. Portano con sé anche la banda musicale per fare un po’ di baccano, montano gli altoparlanti e poi predicano; e la gente è contenta di sentirli. Io dico sempre loro che la predicazione deve essere accompagnata dalla testimonianza della vita e dalla preghiera, altrimenti non funziona e può anche scandalizzare».
Però non hanno paura di esporsi.
«Il dato fondamentale è che questa gente vuole esprimere se stessa, vuole comunicare agli altri la gioia di aver incontrato Cristo. Anche le donne, non solo gli uomini. C’è la direttrice delle Poste di Vanimo, persona colta e laureata, che racconta a tutti la storia della sua conversione a Cristo. Nella capitale Port Moresby, trovi predicatori da tutte le parti. Un po’ lo fanno per i loro interessi, ma c’è anche l’aspetto positivo, pure nelle sette. Parlano e predicano per convinzione personale: per loro l’incontro con Cristo e la conversione sono un fatto rivoluzionario che cambia la vita, sperimentano la dolcezza e la bellezza di aver trovato il Messia. In tutto questo c’è una componente fortemente emozionale: Gesù Cristo lo sentono profondamente e vogliono raccontarlo a tutti. I fedeli della diocesi di Vanimo non hanno vergogna di appartenere alla Chiesa cattolica e di dire che sono devoti di Gesù e della Madonna. Per loro essere cattolici è un grande dono ricevuto da Dio e debbono trasmetterlo ad altri ».
Parli con entusiasmo della tua Chiesa…
«Le pecorelle del mio gregge hanno molti difetti e peccati, potrei farne un lungo elenco. Ma mi consola il loro orgoglio di far parte della Chiesa. Hanno alle spalle la loro storia, sanno che la Chiesa qui è stata portata e fondata da stranieri. Ma sanno anche che la fede cattolica è oggi l’unica speranza di questo popolo. Dal governo e della politica in genere sono delusi. Vedono, invece, che dove arrivano il prete e la Chiesa c’è una novità benefica per la società, quindi sono orgogliosi di far parte della Chiesa cattolica. Tutti mi chiedono: “Mandaci un sacerdote!”, perché sanno che con il prete arriva tutto il resto: le suore, i catechisti, la scuola, le novità sociali che migliorano la vita. Nei villaggi preparano la cappella, la casa del padre, strutture molto povere, per poter avere la chiesa. Purtroppo abbiamo pochi preti e poche suore. Abbiamo però i catechisti che sostituiscono i preti. Li prepariamo nel Centro catechistico e pastorale diocesano e anche questo è un costo notevole perché dobbiamo portarli in aereo a Vanimo, soggiornano lì due o tre mesi per dei corsi e poi tornano a casa. Abbiamo il catechista prayer leader che guida la preghiera e poi i catechisti più formati che vanno a visitare i villaggi, incontrano i cristiani e i non cristiani, sostituiscono bene il prete quando non c’è».
Fin da quando sei arrivato a Vanimo hai capito che la mancanza del seminario diocesano era il problema numero uno.
«Forse l’impegno più grande del mio apostolato a Vanimo è stato ed è il seminario. Nel 1992 la diocesi aveva otto o dieci sacerdoti, tutti stranieri. Ho cominciato col seminario minore, la scuola media. E nel 2011, per il secondo anno consecutivo, è stato dichiarato dal governo nazionale la miglior scuola media della Papua Nuova Guinea. Ci siamo impegnati molto con la scuola, gli insegnanti, i testi scolastici e questi, dopo vent’anni, sono i primi frutti. È anche un motivo di orgoglio per i nostri cattolici. Non mi hanno mai fatto sentire straniero, ma la mancanza di sacerdoti locali pesa: anche se non lo dicono, la sentono. Allora, quando vedono il vescovo che si impegna per il seminario, capiscono che la Chiesa è lì non per fare una colonia, ma per educare e lasciare a loro la guida della Chiesa locale. E ormai siamo sulla linea d’arrivo».
Com’è oggi la situazione del clero a Vanimo?
«Attualmente ho venti preti, di cui uno solo è un sacerdote diocesano. L’anno prossimo, però, incomincerò ad ordinare i diaconi e poi tra qualche anno – con la grazia di Dio – spero di averne tre o quattro nuovi ogni anno. Il che in Papua Nuova Guinea è una cosa meravigliosa, perché soffriamo molto a causa della mancanza di preti. Nel Paese ci sono circa 600 sacerdoti, ma almeno la metà sono ancora stranieri. Ho con me solo un prete italiano, padre Francesco Raco del Pime che viene dall’India, e poi preti indiani, indonesiani, filippini, argentini, birmani, europei. Il governo ha favorito molto lo sviluppo delle scuole, ovunque vi sono scuole medie e licei, per cui il numero dei seminaristi è calato e anche quello dei sacerdoti. A Vanimo ho subito voluto il seminario minore e la sua scuola interna, poi il ginnasio superiore e il liceo con la scuola interna, con professori laici e tre religiose indiane delle Suore della Presen¬ta¬zione di Como che sono bravissime. Il seminario dà un orientamento a tutta la pastorale diocesana».
E i seminaristi quanti sono?
«Nel minore abbiamo 50 studenti, nel maggiore una ventina. È un numero molto grande, data la situazione della mia diocesi, una delle ultime nate nel Paese. Il nostro seminario è diocesano, mentre i seminari regionali sono sotto il patrocinio della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. La formazione dei sacerdoti è importante e non facile perché negli ultimi tempi si è affermato in Papua Nuova Guinea il movimento che si definisce “my culture”. Dopo l’indipendenza il Paese ha acquistato una coscienza nazionale in campo politico e culturale. Per cui, specie le persone colte, dicono spesso “questa è la mia cultura”. Il problema è che tutto finisce lì, senza ammettere nessun altro modo di vita. Il Concilio Vaticano II, invece, ha riconosciuto sì l’importanza delle culture locali, ma nel segno dell’inculturazione del Vangelo».
Che cosa intendi per modi di vita?
«Lo dico con molta prudenza. Ubriacarsi – ad esempio – è un vizio comune tra la gente e sta diventando comune anche tra il clero e i seminaristi. Per essere uno di loro bisogna anche ubriacarsi, masticare la betel nut. Io mi sono messo d’impegno a proibire queste abitudini in seminario: dev’essere un luogo di formazione alle virtù cristiane. Fumare o ubriacarsi non sono abitudini che fanno parte della cultura locale, sono state importate. Però fanno comodo e si etichettano come “my culture”. A questo aggiungerei la tendenza di concedere ai giovani, nei seminari, certe forme di libertà che, nel tempo della formazione, non hanno senso. Un’altra cosa difficile è stata introdurre la figura del padre spirituale: all’inizio quando dicevo ai seminaristi che debbono andarci una o due volte al mese non capivano. Rispondevano “mi save”, lo so io. Oggi sono contenti e sentono che la loro vita sta prendendo un orientamento più preciso per diventare buoni sacerdoti. Fin dall’inizio ho detto: “Questo è un seminario, non una High School qualsiasi. Chi ha qualche intenzione di farsi prete, venga, chi invece esclude in modo deciso di diventare sacerdote, non venga da noi”. Così la scuola ha acquisito una sua identità come seminario ed è diventato più logico e più semplice mettere certe regole sulla preghiera, sulla vita spirituale…».
Ti hanno criticato per questa linea formativa?
«Certo, era inevitabile. Ma io rispondo che non faccio altro che seguire le indicazioni della Chiesa e del Concilio Vaticano II. I ragazzi lo sanno e va avanti chi con sincerità vuole vivere quelle norme, quello stile di vita. Altrimenti, puoi anche avere dei preti formati in qualche modo, ma poi ti penti di averli ordinati perché non danno buon esempio. A parte anche il problema morale e spirituale, il prete è una professione e tutte le professioni hanno le loro norme e regole da osservare. Il pilota d’aereo non può bere, se si ubriaca gli tolgono il brevetto. Possibile che per i preti non si riesca a pretendere la stessa severità?».
Hai realizzato il tuo seminario e, con l’aiuto di Dio, hai ottenuto un certo risultato positivo. Tu pensi che questo abbia influenzato gli altri vescovi?
«Certamente. Ho detto ai vescovi di non mandare i loro seminaristi da me, ma di farsi il proprio seminario. A volte dicono che ho molti soldi e io rispondo che, se uno s’impegna, i soldi li manda il buon Dio. Ma il dato fondamentale è che non ho avuto paura di fare brutta figura e di sentirmi criticato. Sette-otto an¬ni fa in Papua Nuova Guinea sono stati aboliti i seminari minori inter-diocesani che esistevano, fidandosi delle scuole medie statali. Dicevano: le High School sono alternative ai nostri seminari minori. Adesso dalle scuole medie statali non vengono più vocazioni e gli alunni nel seminario maggiore nazionale diminuiscono continuamente. Ho visitato tutte le Chiese vicine alla nostra: Indonesia, Filippine, India, Birmania… Hanno tutte il seminario minore. Il problema è che siamo stati fortemente influenzati dall’Australia, che a sua volta è influenzata da altre Chiese d’Eu¬ropa. Adesso parecchi vescovi si pentono, ma ricostruire uno stile severo di seminari secondo il Concilio non è facile».
È difficile la formazione al celibato?
«Direi di sì, perché avere una discendenza è importantissimo per chiunque in Papua Nuova Guinea. D’altra parte c’è un altro dato molto importante che non va sottovalutato: la gente non accetta un sacerdote che non sia celibe. Il sacerdote che avesse una doppia vita viene decisamente rifiutato dai fedeli. Questo è un elemento che aiuta la formazione al celibato».
Quindi tu sei favorevole al mantenimento del celibato?
«Decisamente sì. Anzitutto per motivi teologici: l’insegnamento degli Apostoli, l’insegnamento dei Padri della Chiesa e la disciplina della Chiesa universale dei primi sette secoli. Ma anche per motivi pratici: primo fra tutti il fatto che la nostra gente non apprezzerebbe il sacerdote cattolico sposato: correremmo il rischio di avere ancora meno preti. Evocare la possibilità di avere nella Chiesa latina i viri probati sull’esempio delle Chiese orientali cattoliche non fa altro che creare un’illusione e dei grossi problemi alla formazione dei seminaristi dovunque nel mondo».
Parlavi prima della testimonianza cristiana della gente. E i tuoi sacerdoti come predicano?
«La nostra predicazione è molto diversa da quella in uso in Italia. È molto pratica e fatta di episodi, fatti, esperienze. Nella mia diocesi ho sacerdoti che vengono dall’India e sono fantastici: predicano e raccontano storie che la gente ascolta volentieri. Quali storie? Pagine bibliche o evangeliche, ma anche loro storie personali, fatti che tutti conoscono, episodi quotidiani, esempi di santi. Il Vangelo è trasmesso attraverso il racconto, la notizia, la vita. La predicazione dev’essere molto concreta. Tu non puoi andare in Papua Nuova Guinea con un documento della Chiesa o del Papa e leggerlo; devi trasmettere quel contenuto attraverso una storia. Come faceva Gesù con le parabole».
Da Chioggia all’Oceania
Cesare Bonivento è nato a Chioggia nel 1940 ed è diventato sacerdote del Pime nel 1965. Da giovane sacerdote è stato redattore di Mondo e Missione prima di specializzarsi in teologia nel 1972 all’Università Cattolica di Friburgo in Svizzera dove si è laureato in teologia nel 1972, con specializzazione nei temi della missione alle genti. Tornato in Italia ha fondato l’Isa (Istituto Studi Asiatici) e insegnava nel seminario teologico del Pime a Milano. Poi, a Roma, è stato segretario per la formazione della Direzione generale del Pime e docente di missiologia e catechesi all’Università Urbaniana. Nel 1978 l’allora prefetto di Propaganda Fide, cardinale Agnelo Rossi, l’ha incaricato di fondare all’Urbaniana l’Istituto per la catechesi missionaria, che dura tuttora. Destinato dal Pime a iniziare insieme a padre Giulio Schiavi la missione nella Papua Nuova Guinea, nel 1980 ha ricevuto il crocifisso da papa Giovanni Paolo II. Dal 1992 è vescovo della diocesi di Vanimo.