Il governo di Canberra ha siglato un’intesa per porre fine all’utilizzo dell’isola della Papua Nuova Guinea come centro di detenzione fuori dai suoi confini per i richiedenti asilo giunti via mare nel 2013. Ma non aprirà le porte nemmeno a poche centinaia di persone che di fatto sono rimaste prigioniere per 8 anni. Padre Licini: “La retorica dei barconi e dei trafficanti di persone non regge più”
I governi dell’Australia e della Papua Nuova Guinea hanno firmato ieri un’intesa che porrà fine entro il 31 dicembre 2021 all’Accordo regionale di reinsediamento, il meccanismo del 2013 in base al quale i richiedenti asilo che cercavano di raggiungere via mare l’Australia venivano “dirottati” in appositi campi a Manus, un’isola della Papua Nuova Guinea in mezzo all’Oceano Pacifico. L’Australia, dunque, non invierà più nessun migrante respinto in Papua Nuova Guinea, ma non aprirà nemmeno le porte a nessuno dei circa 100 richiedenti asilo (per la stragrande maggioranza asiatici, compresi alcuni afghani) che da 8 anni ormai si trovano “parcheggiati” nel Paese vicino. La Conferenza episcopale della Papua Nuova Guinea e delle Isole Salomone – che in questi anni si è battuta con forza per la difesa della dignità di queste persone – ha diffuso oggi questa dichiarazione ufficiale, attraverso il suo segretario generale padre Giorgio Licini, missionario del Pime.
Appena 123 dei 1523 richiedenti asilo e rifugiati detenuti dall’Australia in Papua Nuova Guinea, in cambio di denaro e progetti infrastrutturali, e arrivati tra agosto 2013 e febbraio 2014 rimangono nel Paese. Gli altri sono tornati al loro luogo d’origine, sono stati trasferiti temporaneamente in Australia per motivi medici, oppure sono stati reinsediati principalmente negli Stati Uniti d’America. Alcuni sono morti. Dei 123 ancora in Papua Nuova Guinea ci si aspetta che alcune decine, forse fino a 30 o 40, possano ancora essere accettati dal Canada attraverso un piano di sostegni all’accoglienza privati. Non si sa se gli Stati Uniti ne accetteranno ancora qualcuno, dato che per circa 35 di loro, la cui domanda di accoglienza è stata già sottoposta al processo di screening, la risposta tarda insolitamente ad arrivare.
L’Australia, quindi, si trova ad affrontare una situazione in cui un numero indeterminato di persone ancora in Papua Nuova Guinea, presumibilmente tra 80 e 100, non avranno alcuna opzione di reinsediamento in un Paese terzo. La stima cresce fino a qualche centinaio considerando anche quelle trasferite con lo stesso schema per il vantaggio finanziario dell’isola-Stato di Nauru, in Micronesia, e quelle temporaneamente trasferite in Australia nel corso degli anni dalle due località offshore.
È una buona notizia il fatto che l’Australia abbia formalmente deciso di sollevare la Papua Nuova Guinea dal peso di ospitare un centro di trattamento offshore gestito per anni come una prigione. I tribunali papuani avevano già detto ai vecchi padroni coloniali nel 2016 che quanto stavano facendo era in violazione della
Costituzione dello Stato ormai formalmente indipendente.
Un atteggiamento negativo, tuttavia, sta riemergendo nuovamente. Alcune decine di persone, in maggioranza riconosciute a livello internazionale come rifugiati e a cui è probabilmente negato il diritto di risiedere in Australia, sono considerati soggetti a un obbligo di vivere in Papua Nuova Guinea.
In base all’accordo annunciato il 6 ottobre 2021, ufficialmente la Papua Nuova Guinea si farà carico di tutti i costi sostenuti per raggiungere una soluzione permanente, all’interno o all’esterno del Paese, per questo gruppo che rimane. Ma questo è vero solo sulla carta. L’Australia continuerà a sostenere i costi a sua discrezione e gradualmente ridurrà i contributi fino al completamento del processo di integrazione locale. Ma è un processo che potrebbe richiedere fino a un decennio. Se davvero lasciato in mano solo al governo della Papua Nuova Guinea, le cose volgeranno presto al peggio. Non per cattiva volontà, ma a causa dei vincoli di bilancio e dei tagli che già sperimentiamo sempre più spesso in settori cruciali come la salute e l’istruzione; immaginate il destino del settore dell’immigrazione.
La Papua Nuova Guinea ospita già circa 10mila rifugiati della Papua Occidentale, che vivono ai margini della società senza nessun accesso alle terre ancestrali o ai benefici. È difficile capire con che coraggio l’Australia impone un ulteriore fardello sulle spalle dell’ex colonia e dei suoi servizi di immigrazione, già sotto pressione non solo per la situazione della Papua Occidentale, ma anche dall’attraversamento illegale delle frontiere e dal traffico di esseri umani, dal contrabbando di droga, dagli sfollati interni, ecc.
La retorica dei barconi e dei trafficanti di persone non regge più. All’inizio del 2022 saranno otto anni dall’ultimo arrivo di marittimi “illegali” sulle coste australiane e senza bisogno di mandare nessuno in Papua Nuova Guinea o a Nauru dal febbraio 2014. Questa è una buona notizia. Previene le morti in mare e ripristina il rispetto della sovranità e della sicurezza dell’Australia nel Pacifico. Ma suggerisce ancora di più di mettere fine alle sofferenze di tutti quanti sono caduti nel baratro nel luglio-dicembre 2013 e hanno servito lo scopo australiano di protezione delle frontiere a così grande costo personale.
Dopo tutto sono persone, per lo più giovani, non cani randagi.
padre Giorgio Licini
segretario generale della Conferenza episcopale della Papua Nuova Guinea e delle Isole Salomone